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Documentari su tematiche sociali di attualità

Ultimo Aggiornamento: 29/08/2011 17:50
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OFFLINE
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06/03/2011 21:22

incontro con i tecnici
Concordo con joventango sul fatto che prima si debbano riunire autori e regista per discutere della struttura del documentario, dei temi da affrontare e sull'eventuale materiale da reperire. Solo in un secondo momento, coinvolgere i reparti tecnici per discutere di tutto ciò che li riguarda. Ovviamente ognuno potrebbe essere libero di prendere parte agli incontri di pre-produzione.
In ogni caso un incontro conoscitivo potrebbe essere interessante. Io purtroppo in quel weekend sarò sul set di un documentario...magari porta bene!



OFFLINE
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07/03/2011 14:22

Ciao a tutti, concordo sulla suddivisione dei ruoli, come avevo già detto, relativamente alla prima fase del progetto...
E a proposito di ruoli, ho inserito la pagina Presentazioni che riporta i ruoli per cui ci si è proposti così da avere un'idea più chiara di ciò che c'è e ciò che manca per "cominciare" .... dove... "ciò"... sta per "persone" [SM=g27985]
OFFLINE
Post: 37
Città: ROMA
Età: 47
Sesso: Maschile
09/03/2011 10:30

Materiale da elaborare (parte 1)
Ciao ragazzi io pensavo di iniziare ad elaborare un po' di materiale trovato sulla rete. Ho usato le parole "gioventù moderna" per cercare su google. Ed anche altre simili:"psicologia nuove generazioni".

Riporto alcuni risultati con riferimento alle fonti

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La gioventù moderna: alla ricerca di una nuova “prova di iniziazione” per l’età adulta


Fonte: www.newnotizie.it

I ragazzi di oggi crescono in un mondo che mette loro a disposizione tutto ciò che desiderano, lasciando le vecchie sfide giornaliere della caccia e della sopravvivenza al mito di culture antiche o lontane. In un mondo così strutturato si potrebbe pensare che i ragazzi debbano crescere nel migliore dei modi, senza avere problemi di alcun genere. Eppure nelle nostre società occidentali la realtà a cui assistiamo è ben diversa.

Non è difficile leggere su un qualsiasi quotidiano di delinquenza giovanile, di abusi di alcool da parte di minori, di sette sataniche, di “santoni” che con musica o parole attirano a sé un numero sempre maggiore di ragazzi sperduti, di suicidi o omicidi. Il quadro che ci viene mostrato è alquanto allarmante. I giovani, infatti, risultano sperduti, senza una valida guida che li possa indirizzare verso la loro età adulta. Si sa che nell’adolescenza si rompono le regole imposte dai propri genitori, si va contro tutto e si cerca di scoprire il proprio ruolo in questo mondo.

Questa scoperta avviene attraverso tutto quello che è stato dato al ragazzo durante l’infanzia, la possibilità di vedere una figura di riferimento forte, una famiglia stabile che sostiene (sostiene e non trascura dando colpa agli altri di tutto quello che il proprio membro adolescente può fare). Il vivere in una società che ha messo tra i bisogni primari futilità come cellulare, televisione e computer, costringe a vivere sempre più velocemente e al di sopra della propria maturità. Ormai si pretende che un ragazzo si comporti da “uomo” da un momento all’altro della propria esistenza, la famosa maggiore età. Il diciottesimo anno di vita, che dovrebbe sancire quel punto di passaggio, in realtà non è veramente sentito, non si cambia da un giorno all’altro e un 17enne non è più maturo di un 18enne; eppure a quest’ultimo vengono chieste responsabilità a cui non è mai stato preparato, un esempio eclatante è la vita politica.

L’educazione politica nella nostra società è quasi sparita, ai ragazzi non si può mai parlare di politica per non “traviarli" da quello che è il pensiero familiare. Del resto le famiglie non parlano più di politica se non esprimendo pareri tipo “Son tutti ladroni” o “Perché votare, tanto il mio voto non cambia nulla”, ma al 18esimo anno di vita, si chiede ad una persona che non ha quasi mai sentito parlare di politica, di temi sociali, di programmi politici e di vita economico – sociale, di prendersi l’impegno di portare avanti una democrazia di cui conosce a stento la storia. Chi vota lo farà per conoscenza, per simpatia, per bellezza, per interesse, ma pochi voteranno con l’idea di quello che fanno.

Forse bisognerebbe far sentire ai giovani l’abbandono di un età infantile, fatta di giochi e spensieratezza, per entrare a far parte del mondo adulto con tutte le sue regole, obblighi e privilegi. Non una semplice data su un calendario, ma un rito, un'iniziazione.
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CONFERENZA STAMPA PRESENTAZIONE
RAPPORTO GRUPPO OPERATIVO GIOVANI VIOLENZA EDUCAZIONE


Fonte: http://www3.ti.ch

Patrizia Pesenti, 10 giugno 2008
"La gioventù moderna è votata al demonio, senza dio e pigra. Non sarà
mai più come la gioventù del passato e non riuscirà mai a dare continuità
alla nostra cultura”
1
Queste sono le parole di un testo fenicio di tremila anni fa.
Parole che probabilmente ogni generazione ha detto e scritto.
Per questo ho apprezzato particolarmente il rapporto. Perché va al di là
dei luoghi comuni, delle semplificazioni, dei pregiudizi. E perché dice
alcune semplici verità, forse le uniche che si possono sostenere senza
tema di essere smentiti: e cito
Il paradosso dei nostri tempi consiste nel ritenere già grandi fanciulli ed
adolescenti per quanto riguarda la libertà e i consumi (di tutto e di più),
salvo poi accorgerci che non abbiamo dato loro gli strumenti sufficienti
per evitare e affrontare i pericoli (pag. 41) e ancora
In questa materia non c’è nulla di risolutivo, ma molto di semplice e
praticabile. (…) In fondo si tratta essenzialmente di recuperare,
riaffermare il ruolo e la responsabilità educativa e formativa dell’adulto.
(pag. 27).
Mi rendo conto che le due frasi salienti che cito del rapporto concernono
non i giovani, ma gli adulti. Ma proprio perché sono persuasa che se si
parla di bambini e adolescenti non si può considerarli disgiunti dal
contesto familiare, dall’ambiente in cui crescono.
Purtroppo il nostro Cantone ancora recentemente è stato confrontato con
un grave crimine, e anche se si tratta di un caso raro nella sua gravità,
non può non interpellarci, coinvolgerci come adulti, come genitori, prima
ancora che come autorità. Anche se non si trattava di adolescenti,
bisogna prendere atto di come anche la violenza, in forme nuove, si sia
impadronita dei rapporti tra adolescenti. Certo dobbiamo farlo con la
massima attenzione a non generalizzare, a non demonizzare tutta una
generazione. Ma dobbiamo guardare in faccia il problema, perché non
può essere negato, e fare tutto quanto è in nostro potere per educare i
giovani alla non violenza.
1
Bonino S., Cattelino E., Ciairano S. Adolescenti e rischio – Comportamenti, funzioni e fattori di
protezione, Giunti Editore, Firenze 2003L’adolescenza è sempre stata un periodo tormentato, di trasformazione e
di comportamenti tali da mettere in difficoltà l’adulto, spettatore del
passaggio dall’infanzia all’età adulta. Ogni società ha trovato modalità
chiare per segnare questo passaggio dall’infanzia all’età adulta con i riti di
passaggio da un’età all’altra. La nostra cultura attuale non segna questo
passaggio, ma le manifestazioni che gli adolescenti mettono in mostra ci
spaventano e ci sembrano fuori dal nostro controllo. E il passaggio non è
facile.
Come può l’adolescente di oggi divenire adulto in un mondo che offre
tutto e il contrario di tutto?
Ad esempio: come possiamo chiedergli di essere non violento quando
ogni giorno è bombardato da immagini di aggressività e di guerra?
Ed ancora: non è facile sviluppare una sessualità armoniosa e rispettosa
dell’altro quando la sessualità è fortemente esibita in tutti i messaggi
pubblicitari, quando l’accesso alla pornografia è talmente facile.
Come possiamo chiedergli la tolleranza quando gli adulti (certo non tutti)
fanno a gara ad essere intolleranti?
Perché forse la difficoltà è qui. Nel fatto che i giovani tendono a
conformarsi, a riproporre modelli di comportamento degli adulti, più che a
metterli davvero in discussione. I giovani non si pongono in
contrapposizione all’adulto. Tra l’altro questo ce lo dicono molti studi: gli
adolescenti valutano più positivamente gli adulti che non i propri coetanei.
Mentre, al contrario sono - in generale - gli adulti ad avere un’opinione
più negativa, rispetto alla propria, della generazione che li segue.
Per questo dobbiamo partire da noi, dagli adulti, da noi genitori. Essere
attenti a ciò che facciamo noi, non tanto a ciò che diciamo di fare o
declamiamo, ma a ciò che veramente facciamo, ogni giorno.
Le misure e i provvedimenti proposti dal gruppo operativo sono molto
sensati, molto equilibrati. Sono frutto di diversi approcci e conoscenze su
questo tema. Il Governo approfondirà quali di queste misure possono
essere concretizzate subito e quali potranno essere attuate in seguito.
Possiamo davvero fare molto, affinché ogni bambino, ogni giovane possa
avere dei sogni e riesca a realizzarli, affinché ogni bambino possa essere
fiducioso che se ce la mette tutta, se si impegna studiando e lavorando
sodo riuscirà a conquistare il rispetto e l’attenzione che merita. Non c’è
molto altro da dire e fare, ma dobbiamo impegnarci tutti, molto di più di
quanto stiamo facendo.
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Questo articolo parla addirittura dello zampino della massoneria!

Fonte: link

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Psicologia della generazione perduta
i giovani dall'età indefinita


Fonte: http://www.repubblica.it/

Sempre più acute le difficoltà di consolidamento dei progetti personali e professionali dei giovani. Solo la metà possiede caratteristiche di personalità per i compiti di sviluppo. Più forti quelli che lasciano la città di origine. I risultati nell'anticipazione dell'indagine dell'università di Napoli sulle storie raccolte dalla nostra testata
di FEDERICO PACE

NON sono più giovani. E neppure adulti. I protagonisti della "generazione perduta" anche se passano attraverso la tempesta di diverse esperienze, spesso caratterizzate dal disagio, non riescono con il tempo a trasformare se stessi in qualcosa che li porti oltre le possibilità inespresse e li faccia uscire dall'ombra di un'identità indefinita. Per colpa del lavoro che non c'è, di una società sempre più "instabile" che gli sottrae opportunità, ma anche per caratteristiche proprie. E per la responsabilità di chi non gli offre gli strumenti di supporto che sembrano sempre più necessari. E' questo uno dei risultati emersi dall'indagine realizzata dal dipartimento di scienze relazionali "G. Iacono" dell'università di Napoli "Federico II". A confessarlo, in qualche modo, sono stati proprio loro. Sì, perché per scavare nelle profondità del disagio di un arcipelago di generazioni, la professoressa Laura Aleni Sestito, docente di psicologia dello sviluppo e coordinatrice della ricerca condotta insieme a Luigia Sica e Maria Nasti, ha analizzato le testimonianze raccolte dalla nostra testata a novembre del 2009.

LEGGI TUTTE LE STORIE 1/ GUARDA LE TABELLE 2

I compiti mancati dello sviluppo. Dall'analisi che qui anticipiamo emerge che solo metà dei giovani, coinvolti nella ricerca, mostra di possedere quelle caratteristiche di personalità utili a fronteggiare i compiti di sviluppo. I giovani, seppure chiamati a operare in un contesto molto complesso, o forse proprio per questo, solo in piccola parte mostrano di "muoversi a partire da spinte profonde, di avere capacità di controllo sulla realtà interna ed esterna e di percepire se stessi come protagonisti rispetto all'esperienze di adattamento alla realtà lavorativa".

Tra realtà e aspirazioni. Le ricercatrici dell'università di Napoli hanno cercato di fornire una chiave di lettura complementare a quelle in ambito sociologico, antropologico e socio-economico. Al centro, la convinzione che l'identità sia un processo dinamico, una continua negoziazione tra realtà e aspirazioni. Contingenze e progettualità. A prevalere però, nella generazione "senza lavoro", è una frapposizione di entità non integrate. "L'identità personale e l'identità professionale, spiega Sestito, sembrano non potersi integrare l'una con l'altra anche in soggetti di un'età in cui questo deve accadere. Si persegue una senza riuscire a perseguire l'altra. Indipendentemente dal tipo di attività". Paradossalmente è valido anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato. Nel loro caso, per una buona parte, il processo di definizione dell'identità, è compiuto sulla base di fattori esterni, di timori e preoccupazioni, più che speranze e aspirazioni personali.

Quelli che ce la fanno. "Risultano essere maggiormente risolti - racconta Sestito, da anni attenta studiosa della transizione all'età adulta - quelli che sono riusciti ad andare fuori dalla propria città. Anche se poi, denunciano pure loro disagio e stress. Ma con differenze cruciali: ripercorrendo la propria storia hanno mostrato maggiore progettualità a lungo termine e, al momento delle scelte, hanno avuto fiducia nella possibilità di influire sugli eventi. Sono stati capaci di tracciare una traiettoria e di percorrerla nonostante le difficoltà" .

La ricerca del senso. La specificità di un'indagine di questo tipo sta proprio nella decisione di analizzare le storie. "Attraverso le narrazioni - spiega la coordinatrice - attingiamo a quello che è un vissuto non cristallizzato, così come emerge mentre il soggetto lo sta ricostruendo per l'interlocutore". Il racconto svela qualcosa che altrimenti sarebbe inaccessibile anche all'autore, perché si costruisce nel momento in cui viene creato, stimolato dall'esigenza del doverlo raccontare. Ed è anche un modo di agganciarsi a una collettività e a un contesto.

La complessità e le responsabilità. La sensazione è che oggi, alle prese con una società più "instabile", ci sia bisogno di un "capitale di identità" maggiore di quanto ne fosse necessario in passato. "Oggi è più difficile diventare adulti. Il fatto di avere più chance - dice Sestito - rende tutto ancora più complicato. Dopo avere individuato una scelta, ci si deve assumere le responsabilità, in senso psicologico, dell'identificarsi con le cose che si sono scelte e di assumersele come personale traiettoria di sviluppo. Quanto più la società diventa complessa, tanto più è difficile assolvere a questi compiti".

Le scelte senza indagare se stessi. Molti nodi finiscono per venire al pettine al momento delle scelte da compiere dopo avere terminato le superiori. "Molto spesso all'università - osserva Luigia Sica - arrivano ragazzi che non hanno una percezione realistica delle aree in cui possono essere bravi. Al momento delle scelte su cosa fare, sembra quasi che si pongano il quesito 'ora quale facoltà faccio?' invece di 'cosa voglio fare e cosa sono adatto a fare?' e questo crea delle aspettative che quasi sempre vengono disilluse. Si sceglie quello che è più attraente e non il più adatto". Ma forse c'è anche qualcosa di più profondo. "L'indagine sui sé possibili, l'esplorazione delle possibilità future, si è un po' affievolita. Forse il futuro a cui si pensa è più breve. Si sceglie cosa fare l'anno prossimo e non si va oltre".

Le soluzioni possibili. Quali sono allora, in questo ambito, le strade da percorrere per non lasciare che molti giovani siano costretti ad arenarsi in un limbo identitario? Le autrici dell'indagine indicano alcuni strumenti. "I giovani dovrebbero essere aiutati prima a capire le proprie capacità e limiti. E' necessario - suggerisce la Sestito - puntare su un orientamento formativo di accompagnamento negli ultimi due anni della scuola superiore e nei primi due anni dell'università. Ma non l'orientamento di tipo informativo che si fa spesso e rischia di essere disorientante. Pensiamo piuttosto a un training complesso che preveda il riconoscimento di quelle che sono le proprie risorse e i propri vincoli e favorire nei giovani lo sviluppo della capacità di porsi obiettivi realistici appena al di sopra delle proprie possibilità".

____________
La permanenza dei giovani in famiglia: fattori socio-economici, culturali e psicologici.


Fonte: http://www.psiconline.it

D.ssa Giuseppina Rullo - Psicologa, Roma

Questo articolo ha partecipato al 1° Premio di Divulgazione Scientifica "Psiconline.it"


1. Premessa

L'idea comune diffusa dai media sempre più insistentemente che in Italia stiano aumentando i mammoni (i giovani cioè che rimangono a vivere nella casa dei genitori più a lungo di quanto avveniva una volta) è confermata da tutte le indagini statistiche. Non solo: ogni nuova indagine ci informa che questo fenomeno è tuttora in crescita.

Guardando oltre gli stereotipi e le facili etichettature mi sembra opportuno analizzare le ragioni di questo costante aumento di giovani che restano in famiglia, realtà talmente diffusa da rappresentare ormai la norma e venire percepita sia dai giovani sia dalle loro famiglie appunto come normale. E' utile in tal senso riflettere sulle analisi fornite dalla comunità scientifica italiana che, proprio a causa della diffusione del fenomeno, ha iniziato ad occuparsene in anni recenti.



Per prima cosa è interessante mettere in luce che la protratta permanenza dei giovani in famiglia (e, specularmente, la loro ritardata uscita dalla casa dei genitori) è ormai considerato uno dei mutamenti principali della struttura familiare italiana (Di Nicola, 1998; Golini, 1998). Anche se in modo discontinuo, negli ultimi 10-12 anni questo fenomeno è divenuto non solo tema di dibattito sulla stampa nazionale ma anche oggetto di studio delle scienze sociali. Come spesso avviene, tuttavia, esiste poca divulgazione di questa letteratura scientifica, che resta così confinata nelle riviste di settore.
Il presente lavoro vuole fornire una disamina di tale letteratura, cercando di analizzarne i concetti e i risultati, senza per questo avere la pretesa di essere esaustivo. Accogliendo il pregevole obiettivo di Psiconline.it - teso a sviluppare un ambito di sapere psicologico che sia allo stesso tempo divulgativo e rigoroso - intendo dare un contributo che possa avvicinare il mondo degli psicologi professionisti e degli amatori della psicologia al mondo degli esperti della ricerca, e viceversa. In questa prospettiva, Internet appare essere davvero il mezzo elettivo, permettendo di approfondire adeguatamente un tema e, nello stesso tempo, di raggiungere una buona percentuale di lettori; possiamo cercare così di colmare quel vuoto che intercorre tra le riviste scientifiche e i normali mezzi di diffusione (quotidiani, televisione, settimanali).

Questo articolo, in via sperimentale, ha tuttavia il limite di esaminare solo il versante della ricerca scientifica e non quello dei media, non solo per la difficoltà di reperire tale materiale, più effimero per sua natura, ma soprattutto per l'ardua impresa di farne un'analisi - del discorso e del contenuto - che necessiterebbe una ricerca a sé.

Due aspetti principali vanno però evidenziati quando si mette a confronto la letteratura scientifica con le opinioni espresse a mezzo stampa (a volte dagli stessi autori). Sono aspetti che si ritrovano un po' sempre quando si mettono a confronto i prodotti dei media e quelli della scienza:
- nella letteratura scientifica c'è maggiore neutralità e non vengono facilmente espressi giudizi etici sulla lunga permanenza dei giovani in famiglia e sugli effetti che tale comportamento ha o potrebbe avere sugli 'attori' in gioco (giovani e genitori); di contro, per ovvi motivi, ritroviamo nella stampa molti giudizi, spesso negativi, espressi a volte anche implicitamente attraverso slogans e frasi ad effetto (giovani mammoni, cocchi di mamma, ecc.)
- nella letteratura scientifica non si ragiona volentieri in termini causali e, generalmente, non si tende a dimostrare la causa di un fenomeno sociale perché viene considerata a priori la complessità dell'interazione tra fattori biologici, psicologici, culturali, sociali che in genere determinano un sistema di comportamenti; nella stampa invece, per comodità di pensiero e necessità di sintesi, il nesso causale viene molto più utilizzato.

Non per questo bisogna considerare gli articoli a mezzo stampa come superficiali; a volte proprio per la loro sinteticità e incisività, fuori dai ragionamenti macchinosi e dall'analiticità degli scienziati sociali, riescono a mettere subito in luce le modalità di percezione e di comportamento diffuse tra gli individui. Inoltre, hanno l'indubbio merito di mettere facilmente a confronto opinioni diverse, sia di gente comune sia di esperti, ed aprire così la mente del lettore-ascoltatore a proprie elaborazioni personali.

D'altro canto, oltre alla indecifrabilità della struttura e del linguaggio di qualche articolo scientifico, è proprio la neutralità di opinioni sulle cause e sugli effetti di un fenomeno sociale che rende spesso faticoso non solo leggere i lavori scientifici ma farsene una semplificazione a livello mentale, necessaria per poterli poi elaborare a livello personale.

E' per questo motivo che si cercherà in questo lavoro di utilizzare un linguaggio il più possibile semplice, senza per questo banalizzare i temi trattati. Un obiettivo non certo facile data la grande varietà degli studi esaminati, varietà che emerge non solo negli approcci, temi, modalità d'indagine e quindi nei risultati, ma anche nella struttura dei vari lavori che quasi mai hanno seguito i canoni di stesura di un articolo scientifico. Quando possibile, inoltre, si fornirà una breve spiegazione degli approcci teorici e della terminologia usata nelle varie pubblicazioni scientifiche, approcci e definizioni che spesso restano necessariamente impliciti in un singolo lavoro di ricerca.


2. Introduzione

2.1. Guida al linguaggio: concetti e definizioni

In questa sezione si vogliono definire brevemente alcuni termini di base relativi al tema della permanenza dei giovani in famiglia (ed al suo tema speculare dell' uscita dalla casa dei genitori), cercando soprattutto di fornire alcune 'chiavi' per la comprensione del contesto teorico in cui tali definizioni si sono sviluppate.
Il periodo di sviluppo dall'adolescenza all'età adulta è demarcato da alcuni eventi che implicano rilevanti cambiamenti di ruolo, stile di vita, relazioni e ambiente, quali l'uscita dal mondo scolastico, l'ingresso nel mondo del lavoro, il matrimonio/convivenza e l'uscita dalla casa dei genitori. Per il loro significativo impatto sulla vita dell'individuo e per il processo di adattamento che richiedono sono anche definiti marker events da un famoso teorico americano della psicologia del ciclo di vita individuale (Levinson, 1978; 1986).
Oltre a determinare un cambiamento concreto nella vita dei giovani, in direzione dell'ampliamento della loro autonomia individuale, questi eventi assumono anche il valore simbolico di tappe maturative o compiti evolutivi (Scabini, 1995) in quanto rendono visibile il processo di evoluzione dei giovani, della loro progressiva integrazione cioè nel mondo degli adulti.
Tra i vari eventi importanti, anche l'uscita dalla casa dei genitori (leaving home) viene considerata una tappa maturativa, sia nel senso comune sia - spesso implicitamente - nella letteratura scientifica, in quanto espande l'autonomia del giovane e sviluppa la sua capacità di autogoverno e senso di responsabilità.
Il rapporto tra la spinta alla (ed il raggiungimento della) autonomia abitativa ed il processo di maturazione di un giovane, però, non è così scontato come tendenzialmente si è portati a credere. Come ha evidenziato lo psicoterapeuta americano Bowen (1979), uno dei padri fondatori della psicologia e terapia familiare, l'uscita da casa non è sempre un evento con esito evolutivo. Quando è stimolata dal bisogno di sfuggire ad un contesto familiare conflittuale, o comunque insoddisfacente, può rappresentare un meccanismo difensivo teso a creare maggiore distanza fisica tra il giovane e la sua famiglia d'origine e quindi a fuggire dalle tensioni familiari invece che a risolverle. In questi casi l'uscita non può essere considerata di per sé un indicatore di maturazione; si configura invece come parte di un percorso di differenziazione (o svincolo) dai genitori ancora pieno di difficoltà emotive da superare.
Questa complessità nel modo di descrivere l'uscita da casa non a caso proviene dal mondo degli esperti nell'osservazione dei sistemi familiari, psicologi e terapeuti che cercano di analizzare i passaggi individuali (siano essi "normali", "problematici", o "patologici") come come parte di un contesto familiare più ampio. Secondo tali autori, infatti, le percezioni e i comportamenti individuali sono influenzati dal sistema di relazioni familiari di cui ogni persona fa parte e, a loro volta, modificano queste relazioni. In questo tipo di approccio la transizione all'uscita dalla casa dei genitori viene ritenuta particolarmente critica, in quanto fa parte del difficile e controverso processo di distacco e differenziazione dei figli dai genitori, processo che coinvolge l'intero sistema di relazioni familiari. Viene per questo ritenuta una delle cinque fasi di crisi nel ciclo di vita familiare (Minuchin, 1974; Scabini, 1995).
Bisogna sottolineare, infine, che in Italia il rischio di un'uscita precoce e difensiva sembra davvero basso, attualmente; più forte appare invece il rischio opposto di cristallizzare le relazioni familiari (siano esse positive o conflittuali) rimandando il più possibile il momento del distacco del giovane dalla sua famiglia d'origine. Questa realtà, sempre più diffusa, è stata efficacemente definita famiglia 'lunga' da un gruppo di psicologi e sociologi milanesi che, come vedremo più avanti, per primi si sono occupati in modo multidisciplinare dello studio di questo fenomeno (Scabini, Donati, 1988).


2.2. Guida ai dati socio-demografici: limiti d'età e altri numeri

In Italia non esiste una tradizione di studi sull'uscita dalla casa dei genitori e sulle relazioni familiari tra genitori e figli giovani-adulti. Negli ultimi 10-12 anni invece, come accennato prima, questi temi sono divenuti oggetto di indagini statistiche condotte sull'intera popolazione di giovani italiani e di ricerche più mirate svolte su campioni rappresentativi di tale popolazione.
Tutte le indagini e ricerche mettono in evidenza che le ultime generazioni di giovani sono più lente a lasciare la casa dei genitori. A titolo di esempio, riportiamo i dati citati da Cavalli (1996) secondo cui "… l'80% dei giovani italiani d'età compresa tra i 15 ed i 29 anni vive con i propri genitori. Il fatto che all'età di 29 anni quasi la metà dei ragazzi e più di 1/4 delle ragazze vivano ancora nella casa dei genitori non si riscontra in nessun altro posto in Europa (se non, in misura più ridotta in Spagna). Un numero considerevole di giovani continua a vivere con i propri genitori, nonostante abbia terminato gli studi e svolga una stabile attività di lavoro" (pag. 35). Il progressivo allungamento della permanenza dei figli in famiglia è stato anche rilevato attraverso l'analisi comparativa delle indagini condotte dall'ISTAT tra il 1983 e il 1990 (Righi, Sabbadini, 1994).
In questa sezione, tuttavia, non si ha lo scopo di riportare i dati prodotti finora (difficilmente comparabili e in progressivo aumento) ma di fare luce su alcuni elementi e codici di base che non vengono sempre adeguatamente chiariti. Questo non per pedanteria ma per evidenziare quanto i numeri possano essere importanti, in funzione dell'angolazione da cui si affronta il problema. Ad esempio, la definizione dei limiti d'età che delimitano la categoria sociale dei 'giovani' diventa di cruciale importanza nelle indagini sociologiche o demografiche di tipo comparativo (tra epoche diverse all'interno dello stesso paese o tra paesi diversi). Tale definizione risulta meno rilevante quando si vuole analizzare il tipo e la qualità delle relazioni tra figli e genitori, come avviene in alcune ricerche psicologiche.
Vediamo allora alcune definizioni che ci aiutano a leggere i dati socio-demografici. Per famiglia 'lunga' (ovvero, 'lunga' permanenza dei giovani in famiglia) si intendono solitamente due cose un po' diverse:
a) una definizione più 'generica' secondo cui la famiglia 'lunga' è un nucleo familiare in cui convivono i genitori e uno o più figli giovani adulti (ed eventualmente altri membri);
b) una definizione più 'specialistica' per cui è quella tipologia familiare in cui i figli continuano a vivere con i genitori pur avendo raggiunto quella che risulta essere, nel nostro paese, l'età media del matrimonio.
Ma chi è il giovane adulto? E' una nuova categoria sociale con i suoi limiti d'età ben definiti? E qual è l'età media del matrimonio nel nostro paese visto che va progressivamente aumentando?
La denominazione giovane adulto è, come ha acutamente osservato Cigoli (1988), un ossimoro, ovvero una contraddizione in termini: o si è giovani o si è adulti. Il fatto che nella nostra società, come negli altri paesi occidentali, si sia affermata la categoria sociale dei giovani adulti rende manifesta una nuova condizione esistenziale, quasi una nuova fase della vita che vede la compresenza di aspetti di vita giovanile (dipendenza affettiva dai genitori, indefinitezza e dilazione dei propri progetti, ecc.) e di sfere di vita adulta (autogoverno del proprio tempo e delle proprie relazioni extra-familiari, eventuale indipendenza economica e stabilità lavorativa, ecc.).
L'età che convenzionalmente definisce il giovane adulto si va allungando, in Italia, comprendendo gli individui dai 18/20 fino ai 35 anni (Blangiardo, Maffenini, 1988), o tutti i giovani che vivono ancora in famiglia anche oltre i 35 anni (Scabini, 1995), includendo quindi anche i figli in età che sono usciti dalla famiglia d'origine ma vi hanno poi fatto ritorno, spesso in seguito a separazioni coniugali. In molti paesi sono considerati giovani adulti le persone, in qualsiasi condizione abitativa, di età compresa tra i 18 (19) ed i 29 anni (White, 1994).
L'età media del matrimonio viene simbolicamente assunta nel nostro paese come la soglia dell'uscita, in quanto è tuttora l'evento che marca il distacco dalla famiglia d'origine per la maggior parte dei giovani italiani (Farina, 1995). Va qui ricordato che altre modalità d'uscita (tipi diversi di convivenza o distacchi per ragioni di studio/lavoro) sono raramente presenti in Italia, a differenza di quanto accade in altri paesi occidentali, soprattutto di cultura anglosassone (per il confronto dei dati di diversi paesi occidentali, si veda: De Sandre, 1988; CENSIS, 1992).
Questa età si aggirava attorno ai 23 anni e mezzo nel 1975, ai 24-25 anni per le donne ed ai 28 anni per gli uomini negli anni '80, a 26 anni e mezzo per le donne e a 29 anni e mezzo per gli uomini, alla fine degli anni '90 (dati riportati in: De Sandre, 1988; Golini, 1998). In pratica, questi dati sono in costante crescita, sia per i ragazzi sia per le ragazze, e non ci sono elementi per ipotizzare un'inversione di tendenza. Recentemente Golini (1998) ha definito questi dati sbalorditivi, in quanto mostrano come negli ultimi 20 anni sia raddoppiata la percentuale di donne che a 25 anni vive ancora nella famiglia d'origine o, in minor percentuale, da sola ("… il 60% delle donne italiane all'età di 25 anni non è ancora entrata in nessuna forma di unione…" pag. 11).
Va infine aggiunto che, a fini discorsivi, può non essere poi così importante il limite d'età dei figli oltre il quale si può parlare di famiglia 'lunga', bensì il fatto che i giovani nonostante abbiano una certa età - ovvero un'età in cui un tempo solitamente si era già immessi nel ciclo produttivo e si era già sposati - continuino a vivere con i genitori, cioè mantengano forti legami di dipendenza materiale e affettiva da loro.


3. Studi sociologici

Si è preferito suddividere gli studi esaminati, per comodità di sintesi, tra area sociologica e psicologica. Anche se, al loro interno, si evidenziano differenti impostazioni e temi variamente sottolineati, è stato possibile individuare alcune convergenze in ognuna di queste due maggiori aree.
Gli studi sociologici, pur nella loro varietà, sono tesi ad individuare i fattori macro-sociali che possano spiegare il progressivo allungamento della permanenza dei figli nella famiglia d'origine. Sono, pertanto, focalizzati sull'analisi dei cambiamenti sociali e trasformazioni familiari - avvenute negli ultimi due-tre decenni - che possono aver contribuito a causare questo fenomeno; alcuni studi sottolineano inoltre il ruolo di alcuni valori culturali di base che concorrono a determinare la diffusione della famiglia 'lunga'.
Alcuni di questi studi mettono in evidenza le differenze tra le nuove generazioni e le generazioni precedenti, relativamente ai tempi ed ai modi dell'uscita da casa (De Sandre, 1988; Sgritta, 1990; Righi, Sabbadini, 1994; Cavalli, 1996). Altre indagini invece sono tese a rilevare le opinioni e i comportamenti dei giovani odierni su temi inerenti la loro vita in famiglia e la loro protratta convivenza con i genitori; sono indagini promosse soprattutto dall'Istituto IARD di Milano (Cavalli, de Lillo, 1993; Cavalli, 1996) ma non solo (Righi, Sabbadini, 1994).
Infine, si è notato che alcuni studi evidenziano maggiormente i fattori socio-economici mentre altri analizzano anche fattori di ordine culturale legati per lo più ai valori familiari. Per facilitare la lettura dei risultati li ho distinti proprio in queste due sezioni.


3.1. Fattori socio-economici

La scolarizzazione prolungata e, soprattutto, la crescente difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro sono stati indicati unanimamente come i fattori socio-economici più rilevanti. Soprattutto, si ritiene che l'uscita dalla famiglia d'origine, e la transizione all'età adulta più in generale, sia fortemente ostacolata dalla carenza di opportunità lavorative. Questa difficoltà, oltre ad essere causa di disagio e frustrazioni individuali, rinforza e riproduce la dipendenza dei giovani dai loro genitori e li obbliga ad un rinvio di scelte di vita.
In riferimento a questi aspetti, vediamo alcuni dei dati e commenti più significativi:
a) nell'arco di tempo, che va dal 1961 al 1981, si è verificato quasi un raddoppio della percentuale degli studenti nella fascia d'età 15-29 anni (De Sandre, 1988). Questa rapida crescita del livello di scolarizzazione risulta ancora più incisiva per le ultime generazioni di donne italiane. Il ritmo di espansione sembra tuttavia diminuito negli anni '80 e il tasso di scolarizzazione raggiunge attualmente il 60%, cioè un livello che risulta inferiore a quasi tutti gli altri paesi europei (dati riportati da: Cavalli, 1996).
b) il progressivo aumento del livello di scolarizzazione e la crisi occupazionale che investe soprattutto le generazioni più giovani hanno prodotto un innalzamento dell'età media di ingresso nel mercato del lavoro. La disoccupazione giovanile è differentemente distribuita sul territorio nazionale, da nord a sud e da est a ovest, con punte molto elevate in varie regioni del Mezzogiorno. Il tasso di disoccupazione femminile è dappertutto più elevato del tasso maschile, con punte altissime in regioni del sud quali la Sicilia (si veda ad esempio: ISTAT, 1996).
In maniera meno esplicita, anche la dilazione del matrimonio viene ritenuta un fattore importante, di ordine sia sociale sia culturale. L'aumento dell'età media del matrimonio sembra anch'esso dovuto, tra gli altri fattori, al prolungamento degli studi (Golini, 1998); in un paese come il nostro in cui - nella quasi totalità dei casi - si lascia la casa dei genitori quando ci si sposa, tale dilazione si ripercuote a sua volta sul prolungamento della permanenza dei giovani in famiglia.
A queste cause strutturali se ne aggiungono altre. Cavalli e de Lillo (1993) ne individuano due: la scarsità di abitazioni accessibili economicamente ai giovani e l'organizzazione scolastica di livello superiore, la quale da un lato è carente di strutture abitative per studenti e, dall'altro, non pone limiti temporali agli studi universitari (si veda a questo proposito anche Cavalli, 1996). Va qui ricordato l'aspetto ampiamente noto della lunga durata del corso di studi universitari (presente anche in alcuni altri paesi dell'Europa meridionale), all'origine anche dei recenti piani di riforma del ciclo di studi superiori e di quello universitario. Tale durata risulta comunque molto maggiore di quella prevista nei paesi con un sistema di istruzione superiore basato sul modello anglosassone.
De Sandre (1988), inoltre, mette in relazione la protratta permanenza in famiglia con la diminuzione del numero dei figli per nucleo familiare: in base alla sua elaborazione dei dati ISTAT del 1983 risulta che la percentuale di figli in casa è maggiore nelle famiglie con pochi figli (1 o 2 al massimo). L'autore ipotizza che in queste famiglie vi sia un maggior benessere e quindi avvenga un depotenziamento di alcuni fattori presenti nelle famiglie numerose e che probabilmente favoriscono la spinta all'uscita (quali, le scarse risorse di reddito e la mancanza di spazio).


3.2. Fattori culturali

Alcuni degli studi sociologici non trascurano, inoltre, i fattori di ordine culturale. L'enfasi in questo caso è posta sui cambiamenti del rapporto genitori-figli in senso più paritario, oltre che sui fattori strutturali già menzionati.
Attraverso la comparazione di dati ISTAT 1983-1990, Righi e Sabbadini (1994) mettono in luce che va scomparendo il ruolo autoritario paterno, i rapporti sono più equilibrati e i giovani hanno più spazi di autonomia e di tempo; inoltre, i genitori sono contenti della convivenza con i figli 'quasi-adulti' e desiderano che essi rimangano in casa.
Anche Sgritta (1990) ritiene che le cause strutturali (prolungata scolarità, difficoltà di trovare lavoro e alloggio) siano strettamente intrecciate con quelle culturali e psicologiche, rendendo la situazione italiana un caso unico tra i paesi europei. La famiglia, sostiene l'autore, è disposta a farsi carico dei figli molto a lungo, dando loro appoggio materiale ed affettivo, per garantir loro una base sicura da cui partire (con modalità diverse a seconda della classe sociale). In questo senso la famiglia svolge un ruolo di ammortizzatore sociale, facendosi carico di problemi che andrebbero affrontati anche a livello istituzionale.
Un'interessante domanda che viene posta da Cavalli e de Lillo (1993) è se la lunga permanenza in famiglia, così diffusa nel nostro paese, sia influenzata dall'eredità culturale del familismo, costituito da un intenso senso di appartenenza e solidarietà familiare e dal diffuso ruolo protettivo dei genitori nei confronti dei figli.
Si potrebbe ipotizzare che tale modello tradizionale rinforzi l'unione genitori-figli, creando le premesse per una loro difficile separazione e, nel contesto socio-economico come quello appena descritto, per un rinvio del momento del distacco. La persistenza culturale del familismo viene però ritenuta dagli autori solo indirettamente responsabile della prolungata permanenza dei figli che è, invece, il prodotto delle trasformazioni recenti avvenute nella famiglia italiana, divenuta più flessibile e paritaria. In questa direzione, i risultati della loro indagine mostrano che i giovani odierni negoziano molto più di un tempo i loro spazi di libertà in casa, tendono ad aumentare la propria autonomia pur rimanendo a vivere con i genitori ed affermano di trovarsi bene in famiglia proprio per questi aspetti.
La proficua ma poco approfondita intuizione di Cavalli e de Lillo pare essere, in sostanza, che la dilazione dell'uscita sia sì il frutto di cambiamenti culturali nelle relazioni genitori-figli ma che questi cambiamenti siano stati possibili grazie al forte valore tradizionale attribuito ai legami familiari, e soprattutto ai legami genitori-figli.
Va infine menzionato il riferimento alle differenze di genere relative ai tempi e ai modi dell'uscita dei giovani dalla casa dei genitori. Righi e Sabbadini (1994), ad esempio, evidenziano il processo in atto di omologazione del modello femminile d'uscita a quello maschile: le donne restano più a lungo in famiglia, probabilmente per via del prolungamento del percorso di studi e del ritardo nel matrimonio.


4. Studi psicologici: fattori familiari e psico-dinamici

Come abbiamo appena visto alcuni studi sociologici mettono in evidenza fattori di ordine culturale legati per lo più alla persistenza di valori familiari tradizionali, da una parte, e alle trasformazioni delle relazioni tra genitori e figli, dall'altra. Gli studi psicologici sono focalizzati proprio su questi aspetti, portando chiaramente l'attenzione sulle dinamiche intrafamiliari tra genitori e figli. Il loro scopo principale sembra essere quello di esplorare come è la famiglia 'lunga', piuttosto che ricercarne le cause, ma le loro analisi forniscono ulteriori e interessanti elementi conoscitivi anche sulle ragioni dell'affermarsi in Italia di questo stile di 'ritardata' uscita dalla famiglia d'origine.
E' interessante notare come in alcuni di questi studi emergano venature di critica, o comunque di preoccupazione, nei confronti della famiglia 'lunga' che appare ritardare il processo di formazione dell'autonomia e di responsabilizzazione dei giovani, quasi 'trattenere' troppo a lungo i figli in famiglia e rendere statico il (normale) processo di evoluzione del ciclo familiare.
Va infine sottolineato che la quasi totalità degli autori fa capo al Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell'Università Cattolica di Milano, da sempre attento alle trasformazioni della famiglia italiana.
Vediamo ora più in dettaglio gli approcci, i temi e i risultati di questa letteratura. L'oggetto prevalente d'indagine è spesso costituito dalla famiglia 'lunga' del giovane adulto, termine complesso che delinea l'intreccio di tre elementi fondamentali:
a) l'allungamento della permanenza dei giovani nella famiglia d'origine;
b) la peculiarità di questa condizione di vita, tale per cui si può individuare la fase del giovane adulto - che solitamente si svolge nella famiglia d'origine - quale periodo specifico del ciclo di vita, a cavallo tra l'adolescenza e la piena età adulta;
c) l'allargamento della prospettiva di studio dall'individuo all'intero contesto familiare e, soprattutto, al rapporto genitori-figli, al sistema dei loro reciproci bisogni e regole di relazione.
Questo approccio allo studio dello sviluppo dell'individuo e della famiglia sembra principalmente basato sulle teorie sistemico-relazionali. Come già accennato nell'introduzione, all'origine di queste teorie è l'idea che ogni evento significativo vada studiato quale parte del ciclo di vita familiare, più che di quello individuale, in quanto prodotto dei processi e dei sistemi di relazioni intrafamiliari ed intergenerazionali, che a loro volta vengono modificati dagli esiti dell'evento. E' quindi un approccio intrinsecamente interessato allo studio dei processi di cambiamento individuali e familiari.
Nonostante la condivisione dell'approccio teorico questi studi psicologici sono molto vari, non soltanto per i temi trattati ma anche per le strategie e tecniche d'indagine; i risultati e le loro implicazioni non sono pertanto facilmente comparabili.
Una parte di questi studi sono tesi ad investigare l'assetto delle dinamiche intrapsichiche (sia dei genitori sia dei figli) e delle dinamiche relazionali genitori-figli che si instaurano nella fase della famiglia 'lunga' (Cigoli, 1988; Scabini, 1991-1995).

Uno dei risultati più pregnanti, in tale ambito, è l'individuazione dei reciproci bisogni dei genitori e dei figli che li tengono insieme e che tendono ad impedire l'elaborazione del distacco.
Cigoli (1988), nel suo pioneristico lavoro, ha per primo messo in luce questa realtà sostenendo l'esistenza di un reciproco vantaggio di tipo psicologico, tanto per i genitori quanto per i figli, nel perpetuare il loro rapporto di interdipendenza e di convivenza. Da una parte, i figli non sembrano motivati a lasciare il nido domestico, come emerge dalle venti interviste in profondità che l'autore ha raccolto tra studenti universitari. Dall'altra parte, i genitori tendono a trattenere i figli, anche se ormai grandi, piuttosto che a spingerli verso un loro percorso di autonomia abitativa.
Attraverso l'analisi delle interviste effettuate ai genitori degli studenti già intervistati, Cigoli individua nel meccanismo della doppia identificazione la ragione di questi atteggiamenti genitoriali. Da un lato, i genitori si identificano con i propri genitori (in quanto genitori), perpetuando il lavoro interno di riparazione in cui recuperano positivamente le figure genitoriali. Dall'altro lato, si identificano con i figli (in quanto sono stati figli) a cui cercano di dare di più di quanto hanno avuto e si autogratificano per questo. Realizzano così il loro ideale di rapporto, in quanto si sentono i genitori che avrebbero voluto che i propri genitori fossero stati, ovvero ritengono che i figli vivano la condizione che loro stessi avrebbero voluto vivere quando erano figli. Questo dispone i genitori a continuare a vivere questa esperienza gratificante di 'buona genitorialità' e, di conseguenza, a non favorire la spinta all'uscita dei figli.
Un'interessante implicazione di questa analisi è che buoni e soddisfacenti rapporti genitori-figli, pur essendo delle risorse, possono diventare un ostacolo al distacco dei giovani dalla famiglia d'origine; sembrano supportare una condizione di eccessiva stabilità piuttosto che di tensione alla trasformazione, in cui i disagi vengono sottaciuti e accomodati.
Scabini (1995) definisce questa condizione di incistamento. Lo stesso Cigoli evidenzia la doppia faccia - opportunità e problemi - delle relazioni paritarie e soddisfacenti tra genitori e figli: le opportunità contengono il germe che genera i problemi; i giovani vivono bene in famiglia, ricevono amore, attenzione e sostegno: perché dovrebbero voler andar via di casa? Nelle sue conclusioni, l'autore sostiene che è la mancanza la molla del distacco; "…lo svezzamento richiede di poter utilizzare un pizzico di crudeltà, quel tanto necessario a far avvertire la mancanza ed a spingere in avanti" ( pag. 169).
Anche altri autori, in parte riprendendo la tesi di Cigoli, hanno evidenziato che è fondamentale l'atteggiamento dei genitori nei confronti della permanenza dei figli giovani adulti in famiglia. Secondo Scabini, per molti genitori - che si avviano alla terza età - il rapporto con i figli è fonte di gratificazioni e sicurezze e quindi non mostrano nessuna fretta di separarsi da loro (Scabini, 1991); "la rappresentazione che i genitori si fanno della separazione dai loro figli ha effetti non solo sui comportamenti e sui messaggi che essi inviano, ma anche sulle rappresentazioni che i figli si fanno di se stessi" ( pag. 193-4). Per Galimberti (1988), inoltre, l'esito del processo di individuazione-separazione dipende da come i genitori hanno metabolizzato la propria uscita.
Altri concetti interessanti emergono da quegli studi che focalizzano l'attenzione sul processo di transizione all'età adulta.
Farina (1995) mette in evidenza che le tradizionali e principali tappe di transizione all'età adulta (occupazione, matrimonio-uscita) non sono più rigidamente normate; i giovani odierni hanno maggiore libertà di scelta riguardo al cosa e al quando scegliere, ed ogni decisione è considerata reversibile piuttosto che definitiva. Questa diminuita pressione sociale che aumenta la discrezionalità individuale e accresce la libertà personale può essere anche fonte di incertezza e nuove ansie e quindi di continui rinvii delle scelte impegnative (tra cui l'uscita dalla casa dei genitori) che implicano l'assunzione di maggiori responsabilità.
Un approccio in parte diverso alla ricerca è quello alla base di un recente studio di psicologia sociale condotto presso l'Istituto di Psicologia del CNR di Roma (Rullo, 1998; 1999), in cui sono state analizzate le rappresentazioni mentali degli adolescenti relative all'uscita dalla casa dei genitori (sia i loro valori, ideali, aspettative future che i loro desideri e fantasie). Al livello delle anticipazioni sul proprio futuro distacco, l'idea dell'uscita da casa risulta presente nell'immaginario degli adolescenti intervistati, ma per molti questa idea è più legata alla fantasia che ad un progetto da realizzare, essendo considerato un obiettivo sistematicamente meno importante sia delle aspirazioni scolastiche e lavorative sia di quelle finalizzate al raggiungimento del benessere professionale, economico e sentimentale. In generale, emerge soprattutto un atteggiamento rinviante o prudente relativo alla progettazione della futura autonomia abitativa, senza rilevanti differenze di genere o di provenienza socio-culturale (sono stati intervistati più di 500 adolescenti di età 17-20 anni, di entrambi i sessi, che frequentavano diversi tipi di scuole superiori, due ad orientamento universitario e due più ad orientamento professionale).
Questa analisi più descrittiva è stata integrata dall'individuazione di alcuni fattori individuali e familiari che appaiono influenzare tali rappresentazioni. Emerge a tale proposito una grande similarità tra aspettative dei giovani e aspettative genitoriali, come percepite dagli stessi adolescenti intervistati. Essi attribuiscono infatti ai loro genitori ancor meno volontà nel favorire la loro uscita: si ritiene che l'uscita da casa sia un obiettivo davvero poco importante per i genitori; e si pensa che la propria uscita sarà vissuta a livello emotivo in modo mediamente negativo da entrambi i genitori (con reazioni più intense di preoccupazione e dispiacere da parte della madre). Per quanto riguarda le modalità d'uscita, invece, emerge una certa divergenza di vedute: l'uscita per matrimonio e non per bisogno di indipendenza viene percepita dai giovani come l'attesa più agognata dai genitori, in dissenso - in molti casi - con il proprio ideale.
Viene evidenziata, infine, una complessa associazione tra l'aspirazione dei giovani a lasciare in futuro la famiglia e quanto essi siano soddisfatti del rapporto con i loro genitori. In breve, mentre l'insoddisfazione verso il rapporto con i genitori (presente in una minoranza di casi) è associata strettamente al desiderio di uscire da casa e all'aspirazione a lasciarla in futuro, il contrario non è sempre vero, cioè l'essere soddisfatti del rapporto con i genitori non è associato in modo significativo con la bassa o alta aspirazione a lasciare la casa dei genitori.

5. Conclusioni

Gli studi italiani sulla lunga permanenza dei giovani in famiglia non sono molto numerosi, come si è potuto constatare, ma offrono un ampio spettro di approcci, temi, modalità d'indagine e di risultati che rendono difficile una sintesi conclusiva. Alcuni punti fermi si possono però tracciare.
In primo luogo risulta evidente che non è possibile individuare uno o due fattori principali che possano spiegare questo 'ritardo generazionale' nel distaccarsi dalla famiglia d'origine; i motivi risultano invece molteplici e di varia natura, socio-economica, culturale e psicologica. L'ipotesi più robusta sembra quindi essere quella di una convergenza di vari fattori che sembrano spingere nella stessa direzione 'conservatrice' dei rapporti genitori-figli.
Emerge in sostanza un intreccio multiforme, e complesso da analizzare, tra una tradizione culturale italiana centrata sui valori dell'appartenenza familiare, le nuove esigenze del mercato del lavoro che non garantiscono sufficiente sicurezza e stabilità economica, i bisogni dei genitori che tendono a trattenere i figli, e i bisogni dei giovani educati al benessere e tendenti all'annidamento un po' passivo in famiglia; a questi aspetti prevalenti aggiungerei anche la mancanza per i giovani di prospettive più ampie di cambiamento, di nuovi 'muri da abbattere' (di miti e valori cioè trasmessi dalle generazioni precedenti) che in altri periodi hanno favorito la tensione al distacco dei genitori.
La famiglia 'lunga' è un male o un bene? Difficile dirlo. Uno dei 'mali' principali consiste nel fatto che il processo di autonomizzazione dei giovani risulta ostacolato, con un inserimento nella condizione adulta dilazionato nel tempo e con ricadute problematiche per i giovani, le loro famiglie, la società nel suo complesso. D'altro canto, però, emerge l'immagine di una famiglia 'forte' che garantisce una base sicura ai giovani in un'epoca di incertezze e difficoltà di vario tipo per le nuove generazioni. Pur nelle sue contraddizioni, fragilità, divisioni interne (non va dimenticato il crescente numero di famiglie monoparentali o ricostituite) la famiglia italiana sembra rinforzare il valore dei legami intergenerazionali. E questo può creare indubbi benefici non solo per i giovani e per i genitori, che vedono rinforzato il proprio ruolo, ma anche per la collettività che può farsi meno carico dei problemi implicati da un mercato del lavoro sempre meno garantista, soprattutto per le giovani generazioni. Questo stesso beneficio, tuttavia, può essere considerato anche come un male, come una eccessiva delega alla famiglia di compiti che dovrebbero essere più chiaramente svolti dalle nostre istituzioni, le quali dovrebbero progettare, e applicare in via sperimentale, degli interventi radicali che tendano a favorire, materialmente e simbolicamente, il passaggio dei giovani all'età adulta.
La lista potrebbe ovviamente continuare. Ogni eventuale lettore, del resto, potrà riflettere sui vantaggi e svantaggi per i vari 'attori' in gioco (giovani, genitori, governo, settore imprenditoriale, ecc.).
Altre implicazioni invece possono essere messe in luce in queste brevi note conclusive. Una di queste riguarda la facile ironia con cui viene etichettato il fenomeno dei giovani in famiglia. Alla luce della rassegna qui presentata, sembra perdere consistenza lo slogan mammone (e simili) che sottintende un eccessivo, e quindi 'colpevole', attaccamento dei giovani ai loro genitori e al benessere che essi garantiscono. In ultima analisi, restare a vivere in famiglia sembra più una 'scelta obbligata' dei giovani, con tutta la contradditorietà insita in questo termine, che non il frutto di una loro scelta volontaria e consapevole.
Un'ulteriore implicazione riguarda invece il mondo della ricerca. La convergenza di molteplici fattori nel determinare la lunga permanenza dei giovani in famiglia ne complica ovviamente lo studio, ma questo si verifica per la maggior parte dei temi che riguardano i cambiamenti nei valori, progetti, comportamenti, stili di vita giovanili. Un avanzamento degli studi sulla lunga permanenza dei giovani in famiglia potrebbe tendere pertanto ad analizzare più approfonditamente proprio l'intreccio delle variabili in gioco e a verificare quali condizioni siano maggiormente predittive di atteggiamenti e comportamenti futuri dei giovani e dei loro genitori. Inoltre, sembrerebbe proficuo approfondire lo studio delle differenze all'interno dell'universo giovanile, siano esse differenze dovute al ruolo sessuale o all'appartenenza a gruppi sociali diversi o - nello svilupparsi della nostra società in direzione multiculturale - all'appartenenza etnica.


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Materiale da elaborare (parte 2)

Giovani precari. Dall’adolescenza all’età adulta oggi, nell’epoca del precariato e della globalizzazione
di Leonardo Angelini


Fonte:http://www.lacosapsy.com/clinica_adolescenza/giovaniprecari.htm

(uscito in: "Fare e pensare nelle relazioni - Il tirocinio in psicologia, a cura di Fabio Vanni, edito dal MUP di Parma nel 2004)

Adolescenti verso l’età adulta


Entrambi termini adolescente ed adulto etimologicamente derivano dal latino adolesco che significa mi nutro[1]. Laddove nel termine adolescenza si allude a quel tempo e a quello spazio in cui il ragazzo prima ed il giovane, poi, hanno bisogno di nutrirsi per crescere e per fortificarsi nel proprio processo di crescita psicologica che li porterà dalla fanciullezza all’età adulta; mentre nel significato etimologico del termine adulto è implicito il riferimento ad una condizione di pienezza e di maturazione cui l’adolescente aspira, ma che solo l’adulto – letteralmente colui che si è già nutrito – possiede.

Per cui - così come avviene nelle fiabe, in cui il nutrimento materiale allude sempre al nutrimento spirituale - nell’etimo di entrambi i termini vi è una allusione ad un processo di maturazione e di trasformazione lungo il quale, grazie a questo nutrimento, grazie cioè a questa esperienza, ci si fortifica e ci si arricchisce, fino a raggiungere la condizione autonoma tipica dell’adultità.

In questo modo l’adolescenza appare come una vera e propria migrazione interna che dai comodi e domestici territori dell’infanzia e della dipendenza conduce il soggetto verso gli aspri e impegnativi orizzonti dell’autonomia[2] che contraddistingueranno da un certo momento in avanti l’età adulta. Una migrazione che avviene all’interno di un processo di passaggio cerimonializzato che richiede un tempo e uno spazio ad hoc, distinti da quelli dell’infanzia, così come da quelli adulti, poiché in quei luoghi ed in quel tempo si consumeranno una morte e una rinascita che incutono ansie e timori sia nel soggetto che patisce questa perdita simbolica, sia nella comunità degli adulti che non può esimersi prima o poi dall’accoglierlo al proprio interno in quanto neoadulto. Nel corso di questa migrazione interna lentamente, e nonostante le apparenze[3], varie ipotesi su quello che il soggetto potrebbe diventare alla fine del processo di passaggio si confrontano e vengono valutate dinamicamente sia dall’adolescente sia dagli adulti preposti dalla comunità ad attestare le sue qualità particolari che alla fine lo condurranno alla sua rinascita in quanto adulto.

Il che implica da parte dell’adolescente l’acquisizione in itinere di capacità revisionali e di ipotesi progettuali più o meno realistiche, più o meno conflittuali, che si definiscono lungo un terreno di confronto con le vecchie e nuove imago ideali da demolire, da ricostruire, da levigare, da agglutinare, ed, alla fine, da de-idealizzare e da adattare alle esigenze reali del mondo del lavoro ed alle possibili coniugazioni nel mondo degli affetti. E, da parte della comunità degli adulti, l’approntamento di un corpo speciale preposto alla valutazione le cui caratteristiche (rigidità versus riparatività; stereotipizzazione versus individuazione; intuitività versus attenzione cosciente e critica; selezione di censo versus selezione di merito; etc) sono altrettanto importanti quanto l’attività acquisitiva del giovane nel determinare le modalità specifiche e storiche secondo le quali avviene la riproduzione sociale in una determinata cultura. In questo modo ciascuna cultura, sia a livello sincronico che diacronico, definisce nel tempo proprie modalità di passaggio, propri riti, propri tempi, propri obiettivi di adultizzazione.

E’ per questo che, al di là della universalità del passaggi e della sua ritualizzazione, al di là della immanenza in ogni cultura di una presenza che noi definiamo col nome di adolescenza, noi scorgiamo non una adolescenza uguale nella sua fenomenologia in tutto il mondo, ma tante adolescenze, alcune delle quali sono così brevi che si esauriscono nell’atto stesso del passaggio, altre – come la nostra – sembrano tendere ad avere gli anni di Nestore e di Priamo e prolungarsi – Charmet direbbe forse: spalmarsi – ben oltre la linea d’ombra oltre la quale comincia l’età adulta.

E’ per questo che mi pare che una definizione dell’adolescenza in termini funzionali (Jeammet, Pietropolli Charmet, ecc.) sia nettamente preferibile ad una che tenda a delimitare questa fase della vita all’interno dell’intervallo temporale che c’è tra infanzia ed età adulta. Infatti, mentre nel secondo caso ci si espone al rischio di individuare un’area estremamente fluttuante che a volte, specie nelle società semplici, tende addirittura a scomparire (Eassen), nel primo caso si individua un insieme di funzioni che sono riscontrabili univocamente in qualsiasi cultura e lungo tutto il percorso storico delle società umane: funzioni inerenti il passaggio e la sua cerimonializzazione, funzioni inerenti il processo maturativo, funzioni inerenti le modalità di aggregazione dell’ex adolescente nella comunità adulta, etc.: In una parola funzioni inerenti nel contempo sia alle esigenze universali e sia alle modalità sociospecifiche di riproduzione sociale riscontrabili in ogni cultura.

L’approccio funzionale al tema, come avremo modo di vedere fra un po’, diventa particolarmente importante oggi, nell’epoca della globalizzazione, per chi voglia interessarsi ai problemi psicologici odierni che affliggono i giovani che si apprestano ad entrare nel mondo adulto perché ci permette di cogliere gli elementi di fondo che accomunano i destini di adolescenti che diventano adulti ed entrano nel mercato del lavoro o molto presto o molto tardi, al di là di ovvi, ma meno rilevanti punti di distinzione.
Come ormai ci dicono senza pudore i media, e come d'altronde viene sancito da leggi ad hoc volte a ridefinire le modalità di rapporto in base alle quali le giovani leve odierne entrano e spesso sono destinate a rimanere a lungo nel mercato del lavoro, c’è un dato di fondo che accomuna i giovani che accedono al lavoro subito dopo la fine dell’obbligo scolastico e quelli che vi entrano magari dopo aver raggiunto la laurea e aver frequentato qualche master: questo dato è la precarietà.






I giovani d’oggi: precari sulla linea d’ombra


I dati parlano chiaro: saranno presi in considerazione in prevalenza quelli che si riferiscono alla realtà reggiana[4], ma enormi sono le inferenze che, a mio modo di vedere, è possibile fare circa la pervasività e la concreta diffusione in tutta la metropoli postindustriale di un modello di adultizzazione che potremmo così riassumere: - ingresso dei giovani nel mercato del lavoro attraverso le varie forme di lavoro atipico; - loro permanenza in una situazione di precariato per un periodo più o meno lungo a seconda del settore di occupazione, delle caratteristiche del ciclo economico, etc.; ; - loro accresciute esigenze rispetto alla generazione precedente sul piano formativo – conseguente loro permanenza nella famiglia d’origine (o in una situazione di dipendenza economica da essa) per un periodo sempre più lungo rispetto alla generazione precedente.

Con gli ovvi adattamenti alle situazioni locali e - come vedremo - con l’andamento tendenziale del ciclo economico, si può dire che questa è la modalità principe che regola l’accesso odierno all’età adulta della generazione che sotto i nostri occhi sta attraversando la famosa linea d’ombra di conradiana memoria che separa e unisce nel contempo l’adolescenza all’età adulta. Questa la modalità principe attraverso la quale si va strutturando e funziona concretamente oggi la riproduzione sociale, cioè quella delicatissima operazione di “passaggio del testimone” degli usi, dei costumi, delle modalità di vita e di produzione dalla generazione che declina a quella che emerge sulla scena sociale. Questo infine ciò che sul piano psicosociale contribuisce all’emergere di modifiche dei profili caratteriali nelle nuove generazioni (Angelini, 2001), insieme a tutta una serie di elementi educativi già operanti in questo senso durante tutta l’infanzia (Angelini, 1992) e la latenza.

I dati parlano chiaro e dicono che a Reggio Emilia, mentre la leva dei giovani lavoratori dipendenti che nel 1992 è entrata nel mercato del lavoro comprendeva solo un 21,5% di precari, negli anni successivi c’è stata una vera e propria impennata di precari che nel 2002 salivano al 70,6%, ma che in questi 11 anni si sono espansi ogni volta che le nuove leggi volte alla liberalizzazione e alla deregulation del mercato del lavoro ha permesso l’apertura di nuove possibilità di precarizzazione[5]. Ciò non significa che questi giovani siano destinati a rimanere per tutta la vita in una situazione di precariato. Di fatto, come ha dimostrato Seravalli, dopo uno o due anni finora, di fronte ad un ciclo sostanzialmente positivo, circa la metà di essi passa dal lavoro atipico al lavoro standard.

Innanzitutto però rimane il fatto che questa modalità di ingresso si somma al dato del prolungamento del tempo per la formazione (formazione-lavoro, formazione on the job, tirocinio, master, ecc), e spesso si confonde con essa fino a creare situazioni di ambiguità sulla reale natura dei processi in cui il giovane è inserito (Laffi), di procrastinazione sine die dell’assunzione di una prospettiva adulta sia nella vita pubblica che privata.

Tutto ciò, in secondo luogo, finisce col determinare nuovi vissuti e nuovi equilibri nella famiglia d’origine, fino a configurare una nuova forma di convivenza (la famiglia prolungata) in cui “due generazioni adulte” (Scabini) si confrontano costringendo la più giovane e la meno indipendente e realizzata di esse a comprimere le proprie istanze di autonomia e di autoaffermazione[6].

Inoltre, e di conseguenza, l’attardarsi in una condizione di ambiguità e di dipendenza procrastina, fiacca, smonta, inibisce o addirittura impedisce il formarsi in questa generazione di quella progettualità sul piano produttivo e affettivo che finora era stata una delle caratteristiche di fondo che contraddistingueva l’ingesso nell’età adulta.

Infine, tornando al piano economico, se il ciclo dovesse diventare negativo (e le ormai evidenti tendenze alla stagnazione ed alla recessione purtroppo vanno in questa direzione), nei luoghi meno competitivi del mercato globale e negli impieghi più esposti probabilmente si assisterebbe ad una compartimentazione fra i giovani (Seravalli), che continuerebbe a vedere da una parte l’uscita, sia pure ‘postuma’, da una condizione di atipicità e di precariato dei più qualificati fra di essi; mentre dall’altra per i meno qualificati, ed in special luogo per gli immigrati, il rischio sarebbe quello di una cronicizzazione della loro condizione di atipicità con conseguente progressiva marginalizzazione e svalutazione della loro forza lavoro.

Intanto però l’attardarsi da parte sia dei più qualificati che dei meno qualificati sulla linea d’ombra, la medesima modalità con cui entrano e, dopo mille peripezie, si sistemano nel mercato del lavoro, i medesimi atteggiamenti che nei loro confronti assume la comunità degli adulti sono destinati a influire massicciamente nella determinazione di medesimi importanti elementi e della loro personalità, del loro atteggiamento nei confronti del futuro, della loro disposizione ad assumere o meno su di sé il peso della responsabilità e a diventare autonomi.

E, come traspare dal dialogo con loro, come risulta evidente dai loro comportamenti e dai loro riti quotidiani, non è neanche vero che da parte degli adolescenti ci sia una incapacità a intuire il senso di ciò che li attende una volta diventati adulti. Infatti a ben vedere da molte espressioni del loro dire e del loro agire quotidiano traspare, nonostante la lontananza di molti di loro dal mondo del lavoro, la consapevolezza di quella assenza di sicurezza, di quel deficit di senso che li attende che solo un atteggiamento interpretativo superficiale degli adulti addetti ai lavori poi tende ad inquadrare in termini sintomatologici ed epifenomenici.






Il lavoro di ridimensionamento dell’ideale dell’Io megalomanico adolescenziale oggi


Oggi, nell’epoca della globalizzazione, il precariato e tutti i fenomeni ad esso connessi sul piano economico, sociale e psicologico, ci vengono venduti come delle ovvie soluzioni per salvare la società e il PIL dalla rovina e per garantire il futuro dell’economia.

Nessuno si perita di considerare ciò che nel frattempo accade dentro al soggetto che alla fine dell’età evolutiva si appresta ad entrare in questa “giungla globale” che è diventato ormai il mercato del lavoro, ed a permanervi a lungo[7], come abbiamo visto, in una situazione di insicurezza circa il fatto di essere realmente e definitivamente entrato in esso (Laffi), in una situazione di incertezza circa i contorni della propria identità adulta, in una condizione di precariato che difficilmente alimenta in lui la propensione ad identificarsi con la filosofia del luogo di lavoro in cui è capitato e dal quale in ogni momento può essere espulso, in un luogo mentale - quello della post-adolescenza - dal quale risulta estremamente difficile raggiungere un angolo prospettico che gli permetta di poter immaginare il proprio futuro sul piano produttivo e riproduttivo.

Il nuovo idolo della globalizzazione, cioè la speculazione transnazionale che sposta il lavoro laddove esso risulta più conveniente in termini finanziari, impone quotidianamente l’immolarsi in tutto il mondo sui propri altari di legioni di giovani che in questo modo sono sottoposti ad una continua opera di levigamento, che si somma ai dati educativi che già in precedenza avevano esercitato su di essi una forte influenza[8] e che, insieme ad essi, è destinata a modellare sia la loro psiche individuale sia il modello rappresentazionale della prima età adulta che la società tende a cucir loro addosso e che ed essi stessi tendono “spontaneamente” ad assumere, ed a farlo in maniera alquanto diversa rispetto a ciò che avveniva nella generazione precedente.

In questa sede cercheremo di riflettere su quello che verso la fine dell’adolescenza risulta essere un aspetto rilevante nel determinare le modalità di passaggio all’età adulta: e cioè sull’opera di ridimensionamento dell’ideale megalomanico adolescenziale e di ripristino del Super Io edipico e riparatorio. Cercheremo di fare una ipotesi come oggi avviene il passaggio da uno stato di onnipotenza in cui ogni aspirazione può essere megalomanicamente pensata e collocata in un futuro vago e lontano alla reale potenza che nasce dalla decisione di attraversare la famosa linea d’ombra che marca il percorso di migrazione interna delle giovani generazioni all’età adulta; dalla convivenza con una pluralità affastellata di immagini di sé che convivono confusamente a livello di ipotesi e di abbozzo all’accettazione di una immagine di sé concreta e circoscrivibile che nasce dall’impegno sul piano della riproduzione sociale; di passare quel limitare di gioventù che dal regno della speranza conduce a quello del progetto e della responsabilità che dovrebbe caratterizzare, in maniera sociospecifica, ogni cultura portatrice di una qualsiasi etica del lavoro.

Partiremo da una constatazione: tutti gli adolescentologi che guardano al fenomeno dell’adolescenza in termini funzionali, allorché rivolgono il loro sguardo alla fine dell’adolescenza, concordano su di un punto: l’ingresso nel mondo del lavoro (sia che avvenga a 15 anni sia che avvenga a 25 o a 30 anni) implica un profondo ridimensionamento dell’ideale dell’io megalomanico che aveva caratterizzato tutta la fase precedente[9] ed il riemergere di quelle istanze superegoiche edipiche che permettono la definizione dinamica dei limiti della propria potenza e della propria generatività. Istanze che per tutta l’adolescenza avevano latitato (Chasseguet Smirgel) o avevano giocato a rimpiattino con l’Ideale dell’Io megalomanico permettendo al ragazzo prima e al giovane poi di potersi confrontare con i propri modelli, con le proprie imago adulte più potenti e generative senza sentirsi da esse schiacciato ed impedito nel proprio processo di crescita e maturazione.

La realtà del precariato sconvolge e mette in crisi le vecchie modalità secondo le quali fino a ieri avveniva questa doppia azione di levigamento e di riemersione poiché l’assenza di quel doppio background (lavoro \ famiglia) in grado di determinare un terreno di condivisione stabile nel tempo della dimensione della responsabilità, la concreta possibilità che le coniugazioni che su entrambi i piani è possibile fare, anche se generative e soddisfacenti, o rischiano in ogni momento di mettere al mondo frutti che il giovane non potrà mai vedere (lavoro), oppure devono essere procrastinate sine die (famiglia).

In altre parole Il lavoro di ridimensionamento degli ideali adolescenziali e l’emergere dentro al neo-adulto di un bilanciere certo della responsabilità può avvenire solo se il giovane si trova a vivere all’interno di un quadro di stabilità spaziale e temporale.

Infatti è solo all’interno di uno stabile quadro temporale e spaziale che permetta la coniugazione con gli altri lavoratori e con gli elementi tecnologici di base del proprio lavoro che la produttività e la generatività giovanile potranno esprimersi, il giovane potrà realmente sentire come suo il frutto del proprio lavoro, e sentirsi pienamente compartecipe del gruppo operativo in cui lavora. E’ in questo modo che quel luogo e quel lavoro potranno diventare, direi avranno il tempo di diventare i contenitori della sua neonata identità adulta. E’ solo per questa strada che lo sforzo di adattamento all’organizzazione che il giovane fa potrà essere ripagato dalla soddisfazione che nasce in lui dal vedere i risultati del proprio lavoro e dal sentirsi compartecipe dei progetti e dei prodotti.

Così come è solo in un quadro di base che consenta un minimo di sicurezza circa l’avvenire che è possibile passare dall’affettività adolescenziale a quella adulta. E cioè da un’affettività che, nello stesso momento in cui il giovane celebra in maniera intensissima la nuova dimensione (esogamica) dell’amore, non può non essere collocata in una dimensione temporale che, al di là di ogni proposito, è tutta schiacciata sul presente, ad una nuova dimensione dell’amore, quella adulta che, come quella adolescenziale, parte dalla profondità e dalla reciprocità dell’investimento attuale per però proiettarlo nel futuro, in un progetto di vita in comune, cui spesso poi segue la scoperta di una propensione di coppia alla riproduttività anche sul piano anche della genitorialità.

Nell’analizzare l’azione di levigamento e di ridimensionamento dell’Ideale dell’Io megalomanico in adolescenza infine non va dimenticata l’azione che gli adulti, coscienti o meno che essi siano di questa loro funzione, esercitano in questa direzione. La Gottfredson, una delle massime esperte mondiali in tema di orientamento lavorativo, sostiene che nel determinare la scelta finale che il giovane o la giovane faranno allorché si avvicineranno al mondo del lavoro vi sono tre componenti: - da una parte i genitori e la famiglia che con il loro status definiscono la parte inferiore di un’area dentro la quale i giovani si sentiranno affermati, - dall’altra la scuola e tutte le istanze formative che concorrono, insieme a molte altre istanze che comprendono o meno gli adulti, nel definire lambito superiore di quest’area: quello che potremmo definire delle massime aspirazioni realisticamente raggiungibili; - ed infine l’appartenenza di genere che taglia longitudinalmente quest’area determinando lavori considerati adatti a sé in quanto maschi o femmine.

Tutti e tre questi dati ci permettono di comprendere come la comunità degli adulti influisce, insieme all’esperienza concreta che il giovane ha l’opportunità di fare, in ciò che in un altro lavoro abbiamo definito come il processo di ‘imborghesimento’ dell’Ideale dell’Io megalomanico adolescenziale.

Infatti la classe sociale di appartenenza della famiglia, le aspirazioni dei genitori, gli investimenti affettivi (e non) da loro fatti nei figli, l’influenza che le imago genitoriali, come sembra suggerire la Gottfredson, concorrono indubbiamente nel determinare un primo abbozzo del sé adulto. Ma oggi l’eclisse della genitorialità rende più deboli ed evanescenti queste imago e questi introietti (Angelini, 2001).

Così come certa è l’influenza che gli educatori e i formatori possono esercitare nel concorrere, insieme a quell’elemento fondamentale che deriva dall’esperienza concreta e limitante che il giovane va facendo (o non va facendo) mano a mano che cresce e si confronta con se stesso in quell’opera di sfoltimento del ricco e contraddittorio ventaglio di opportunità iniziali sognate dal giovane. Ma la sempre più chiara propensione dei governi alla trasformazione della scuola da luogo di prevalente selezione meritocratica a luogo di conferma del censo e della classe sociale di appartenenza del giovane rischia di vanificare questa seconda importante via attraverso la quale gli adulti non solo possono concorrere nell’opera di ridimensionamento dell’ideale megalomanico adolescenziale, ma anche a promuovere la mobilità verticale attraverso un’opera si selezione che promuova i meritevoli.







Effetti sul giovane adulto del prolungamento sine die dello stato di liminarità spaziale



In questo modo le società più semplici sembrano così molto più capaci della nostra di individuare all’interno della comunità degli adulti quei sacerdoti del passaggio capaci di guidare il preadolescente prima e il giovane adulto poi per tutta la durata del passaggio, di dare ad esso senso, di favorire l’ingresso del giovane nella comunità degli adulti senza eccessivi traumi sia per il neofita sia per la comunità, che altrimenti si sentirebbe aggredita e sconvolta dai nuovi arrivati (Van Gennep).

Cosicché, di fronte alle attuali deficienze del mondo adulto ad accogliere il giovane in maniera non traumatica, quest’ultimo non può che trovare in se stesso e nel gruppo di pari quegli elementi difensivi che gli permettono di affrontare la peraltro lunghissima cerimonia di passaggio senza eccessivi traumi.

E, poiché per tutto questo tempo il giovane non può esimersi dal vivere in famiglia e presso la comunità degli adulti, egli non ha altra chance che definire un luogo a parte, un luogo liminare, che non è che il prolungamento sine die di quel luogo liminare presente in ogni cerimonia di passaggio che ha la funzione di mantenere il candidato alla nuova fascia d’età lontano sia dal mondo dell’infanzia, cui non appartiene più in base ad elementi corporei (menarca, capacità erettiva) e psicologici (capacità crescente di andare da solo per il mondo), sia dal mondo adulto cui non può ancora appartenere innanzitutto poiché, come abbiamo visto, ancora non ha acquisito pienamente alcuni elementi di fondo che contraddistinguono questo mondo, ed in secondo luogo perché gli adulti stessi, di fronte a questo portatore di pericolosi segnali di discontinuità che minano alle fondamenta l’armonia e la pace fra le generazioni (Van Gennep), non possono esimersi dal prendere, almeno emozionalmente, le distanze da essi.

La notte diventa così il luogo principe in cui si aggrega questa enorme massa di questi ‘eterni’ candidati adulti e “quelli della notte” i soggetti che si ritrovano a vivere in questo luogo liminare e in tutti quei luoghi serotini (i pub, gli after hour, i muretti, etc), che hanno loro cerimonie e loro percorsi più o meno esclusivi e che risultano intrudibili solo dalla loro industria culturale che ne scandisce orari, costumi, condotte.

Soggetti che, d’altro canto, smessi i panni che si addicono alla permanenza in questo stato di liminarità, di giorno stazionano nella condizione di figli e di studenti nei più domestici e solari luoghi della famiglia e dell’impegno scolastico e formativo.

Soggetti che, in ogni caso, non possono non sottoporsi a quelle prove solitarie o di gruppo (Le Breton) in base alle quali diventi possibile per loro comprendere la natura degli eventi trasformativi cui non possono sottrarsi e dare senso, o tentare di dare senso al tutto. E’ indubbio che il permanere a lungo in questa condizione presenta una serie di vantaggi e di rischi, che spesso affondano le loro fondamenta nello stesso humus.

I vantaggi sono nel fatto che in questo luogo senza tempo, in cui – come nell’Isola di Peter Pan – tutto sembra rimanere sempre uguale a se stesso, l’assenza del tempo lineare e irreversibile e del richiamo del passato, da una parte, e la permanenza all’interno di una dimensione temporale tutta incentrata sul presente, dall’altra, permette l’emergere di forme di creazione che solo in questa atmosfera lontana e dalle ambasce dei tempi dell’impegno e dai vincoli del passato possono trovare la loro espressione.

I vantaggi sono nell’attribuire a questi luoghi e soprattutto ai gruppi di pari che in essi si formano e si scompongono quella funzioni di famiglia sociale (Charmet) che spesso sono gli unici reali compagni di viaggio, gli unici imberbi sacerdoti del passaggio dei giovani, gli unici in grado di comprendere, anche nei momenti più estremi e rischiosi, la reale natura delle cose che stanno accadendo.

I vantaggi infine sono in un affinamento delle possibilità di autocura e di autopromozione di quelle “cerimonie intime parallele” (Le Breton) che ormai sembrano sopperire al deficit di possibilità di dare senso al passaggio che contraddistingue la gran parte del mondo adulto.
E, si badi bene, allo stesso modo il rischio è che in questo eterno presente il giovane si ritrovi: - costretto - malgé soi - in una condizione di eterno adolescente; - sospinto dalla sua condizione di precario[10] ad assumere su di sè alcuni tratti sintomatici della “sindrome di Peter Pan”: il disimpegno, la vita da “vitellone”, l’incapacità ad assumere su di sé anche le più lineari responsabilità che anche questo limbo perenne che si estende fra studio e lavoro imporrebbe; - schiavo di un personaggio eroico che risulta man mano che egli cresce sempre più liso e pericolosamente in grado di incidere negativamente sul piano della sua autostima, di esporlo sempre più al rischio di apparire ridicolo.

Rischio che, in questo modo: - più che ad un imborghesimento dell’ideale dell’io, più che ad un suo processo di trasformazione e di adultizzazione si assista ad un suo svilimento; - più che ad un riemergere di un Super Io capace di assumere su di sé il peso della responsabilità e la padronanza del progetto si assista alla nascita forzosa nel neo-adulto di un Super Io romantico e a volte caricaturale che, sganciato com’è dall’ambito della responsabilità, risulti più che altro come il frutto di una sorta idealizzazione del Super Io; - rischio che nel caso del precario diventa ancora più marcato, poiché per lui la dimensione dell’impegno condiviso e verificato rimane sempre dall’altra parte della palizzata.

Penso risulti abbastanza chiaro che in questo quadro occorrerebbe rivedere profondamente concetti quali il “salario sociale”, il “salario minimo garantito” che a prima vista sembrano delle richieste ragionevoli miranti a garantire il giovane di fronte ad un mercato del lavoro che semina insicurezza e precarietà.

A mio modo di vedere infatti, alla luce di quanto detto sopra, simili proposte, una volta abbandonato l’approccio economicistico di cui sono figlie (Gorz), ed una volta analizzate da un punto di vista psicosociale, rischiano di diventare una vera e propria esegesi di quell’assistenzialismo caritatevole tipico dello stato neoliberista che, nello stesso tempo in cui sbaracca le tutele del welfare che fu, lo fa in nome di un “welfare delle opportunità” che non è che un insieme di interventi-tampone ex post che inchiodano il precario nella sua condizione di colui che ottiene “per preghiera e non per diritto”.
Il che, a mio modo di vedere, in termini psicosociali significa condurre il giovane a considerare il salario sociale come una compensazione assistenzialistica al suo essere nel mondo e, per questa strada: - ad istituire implicitamente di fronte a se stesso la società erogatrice del salario sociale come un’istanza di tutela genitoriale caritatevole; - e, conseguentemente, a vivere se stesso come un perenne bambino bisognoso sempre di tutela e di contenimento.
Il rischio in termini psicosociali è la deprivazione della società dell’immenso patrimonio di conoscenze e di creatività rappresentato dai giovani. Infatti la sistematica rinuncia all’istituzione dentro al soggetto neo-adulto di quelle istanze di autonomia e responsabilità che sono le fondamenta dell’età adulta implicano una rinuncia alla progettualità ed, in ultima istanza, un vero e proprio killeraggio del futuro. Laddove invece il lavoro continuativo, attraverso la messa in sicurezza della dignità del giovane-adulto, lo garantisce ex ante nella sua autonomia e nella sua capacità di mantenere una propria personale visione del mondo e di assumere su di sé in maniera critica l’etica del lavoro prevalente nella società in cui gli tocca di vivere.




Bibliografia:



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Angelini L., “Il bambino piccolo nel gruppo di pari”, in Angelini L. e Bertani D.: 1992, “Il bambino che è in noi - percorsi di ricerca al nido e nella scuola per l’infanzia”, UNICOPLI, Milano, pp. 195\211



Angelini L, Bertani D., Essere genitore oggi: un mestiere che sin dai primi mesi si coniuga con altre istanze di tipo educativo, in: Angelini L. e Bertani D.: , 2001, "Gioco, scambio e alterità”, Provincia di Reggio Emilia, pp.137\162



Angelini L, Bertani D., Il personaggio eroico in adolescenza, Relazione al Seminario “Nell’Isola che non c’è, di ps pubblicazione.



Chasseguet Smirgel J., L' ideale dell'io : saggio psicoanalitico sulla "malattia d'idealità", R. Cortina, Milano, 1991



Devoto G., Avviamento alla etimologia italiana, Mondadori, Mi, 1979



Easson W., L’adolescente gravemente disturbato, Borla, Roma, 2000



Farina M., Restare in famiglia: una tappa della prolungata transizione alla vita adulta, Relazione al Seminario “Nell’Isola che non c’è, di ps pubblicazione.



Gorz A., Miseria del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma, 1998



Gottfredson L., Gottfredson’s Theory on Circumscription Compromise end Self-creation, in: D. Brown, Ed. 2002, Career Choice end Developement, San Francisco: Jossey-Bass



Jeammet Ph., Psicopatologia dell’adolescenza, Roma, Borla, 1992



Laffi S., Il furto: mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del mediterraneo Ed., Napoli, 1999



Le Breton D., Passione del rischio, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1995



Osservatorio economico N.79, Provincia di Reggio Emilia, 2003



Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, R. Cortina, Milano, 2000



Scabini E., Giovani in famiglia fra autonomia e nuove dipendenze, Vita e Pensiero, Milano, 1997



Seravalli G., Sviluppo economico e mercato del lavoro a Reggio Emilia, CGIL Reggio Emilia – Laboratorio 2001, Reggio Emilia, 2002



Van Gennep A., I riti di passaggio, Torino¸ Bollati Boringhieri, 1988



Winnicott D.W., Adolescenza: il dibattersi nella bonaccia, in: La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Armando, Roma, 1968 (cap.10)



Zanatta A.L., Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna, 1997



[1] Per tutti i riferimenti all’etimo presenti nel testo cfr.: Devoto.

[2] “Essere autonomo” etimologicamente significa avere acquisito la capacità di “darsi da sé la propria legge”

[3] Per comprendere la natura di ciò che sta avvenendo molto utile è la metafora winnicottiana del “dibattersi nella bonaccia”

[4] in cui chi scrive vive e lavora, nel Consultorio Giovani della locale AUSL.

[5] Cfr. Osservatorio economico N.79, della Provincia di Reggio Emilia

[6] La Scabini sostiene che in una famiglia così fatta si semina una vera e propria “epidemia di conformismo”

[7] tre o quattro anni a quell’età sono un secolo!

[8] Cfr. L. Angelini, D. Bertani, 2001

[9] E’ quella che insieme a D. Bertani abbiamo definito “imborghesimento del personaggio eroico” (Cfr.: Angelini; Bertani, ps. pubblicazione

[10] Etimologicamente ‘precario’ significa:ottenuto “per preghiera”, e quindi non “per diritto” (Devoto)

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Questi giovani viziati...


Fonte: http://www.riflessioni.it/forum/psicologia/2778-questi-giovani-viziati-5.html

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Gli over 50 sono invidiosi dei giovani

Fonte: http://www.libero-news.it

Apprezzano di più sentire parlare di situazioni sfortunate come "Tizio è stato bocciato all’esame" piuttosto che "Caio si sposa". Sembra proprio che le persone al di sopra dei 50 anni siano un po’ invidiosette. Per questo preferiscono sentire aneddoti negativi su giovani.

È questo il risultato di uno studio pubblicato sul Journal of Communication da Silvia Knobloch-Westerwick dell’Ohio State University (Usa) che ha messo a punto la ricerca in collaborazione con i ricercatori di Matthias Hastall Zeppelin dell’University di Friedrichshafen in Germania. I risultati provengono da un'analisi condotta su 276 tedeschi: 178 tra i 18 e i 30 anni e 98 tra i 50 e i 65 anni.

Dunque sembra che esista una sostanziale differenza. Mentre i giovani hanno maggiori livelli di incertezza e preferiscono leggere o sentire notizie sui propri coetanei per capire come vivono, le persone più in là con gli anni non hanno il bisogno di confrontarsi con i propri pari d’età. Anzi.

Sentire qualche storiella negativa che ha come protagonista un ragazzo, di tanto in tanto, aiuta l’autostima come spiegano i ricercatori stessi: “Un modo per combattere il tempo che passa e avere una sorta di iniezione di autostima. I nostri risultati sostengono la tesi secondo cui le persone utilizzano i media per rafforzare la loro identità sociale", conclude Knobloch-Westerwick.
11/09/2010

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Il disagio esistenziale, i giovani e la psicologia scolastica.
“CULTURA E NATURA” - RIVISTA DEL C.E.U. 0TT-DIC. 2002
dr. Ciro Aurigemma, psicologo – Roma

Fonte: http://www.interpsyche.com

La sofferenza umana ha molteplici aspetti, quello esistenziale si caratterizza nella mancanza di senso della
vita , del dolore, della morte e nell’angoscia derivata da questo vuoto di valori e significati. Il disagio
esistenziale nel Novecento e’ stato molto approfondito da filosofi, psicologi, ecc., in particolare
dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia. Da filosofi quali Kierkegard, Heidegger, Sartre, Husserl, Jaspers
e altri, in psicoterapia e’ sorto l’orientamento fenomenologico- esistenziale con la terapia esistenziale,
l’antropoanalisi, la terapia umanistica fino all’odierna corrente transpersonale. La terapia esistenziale
raccoglie diversi approcci con in comune il principio di riconoscere che ogni persona vive in un mondo
proprio di significati e sensazioni personali. Si centra l’attenzione sull’essere nel mondo, sulla coscienza di
se’, sulla possibilita’ di compiere scelte responsabili, poiche’ la vita e’ fatta di scelte piu’ o meno
consapevoli che poi contribuiscono al nostro destino. L’assunzione di responsabilita’ e’ la base per cambiare,
lo sfuggire a questo genera colpa esistenziale, la consapevolezza in fondo di scegliere di non decidere. Siamo
essenzialmente soli, ma c’e’ la possibilita’ di entrare in relazione con gli altri e questo avviene anche nella
relazione terapeutica. Infine da soli dobbiamo dare significato alla nostra vita e decidere come viverla.
negare la morte produce ansia, accettarla con consapevolezza e’ una base per dare senso alla vita. Anche la
logoterapia di Victor Frankl, che visse alcuni anni in un campo di concentramento durante la guerra, ha la
meta di aiutare le persone a trovare il senso della vita e anche della sofferenza nei suoi diversi aspetti, essa si
basa sui concetti di amore, altruismo, liberta’, responsabilita’, ricerca dei valori e considera la volonta’ di
assegnare significati come la pricipale motivazione umana. L’antropoanalisi di Binswanger integrava la
psicanalisi freudiana con l’esistenzialismo creando una analisi dell’essere nel mondo, essa considerava tre
aree di analisi : la persona coi suoi pensieri e fantasie interne, i rapporti con gli altri, i rapporti con
l’ambiente. Le persone possono essere alienate da una di queste aree, ciò sarebbe dovuto alla separazione o
dal non saper scegliere. anche la quantita’ di scelte possibili puo’ produrre difficolta’ e ansia esistenziale.
Obiettivo della terapia e’ la consapevolezza e la capacita’ di scegliere in un continuo divenire cioe’
realizzarsi . Il blocco di questo processo produrrebbe il disagio psicologico ed esistenziale. La psicoterapia
umanistica promossa da Maslow porta avanti una visione piu’ ottimistica dell’uomo in cui sono presenti
tendenze innate alla verita’, alla giustizia, alla liberta’ e creativita’, la cui frustrazione produce angoscia. Tra
i principali approcci umanistici troviamo Carl Rogers con la sua terapia centrata sul cliente. egli ha una
visione positiva dell’uomo che tenderebbe all indipendenza, all ’autoconsapevolezza e all’autorealizzazione 2
attraverso la capacita’ di fare scelte autonome. Il Se’ lotta per la coerenza favorita dalla presenza di un altro
significativo che dia accettazione, comprensione empatica e autenticita’. Tuttavia la meta di divenire una
persona pienamente funzionante non si raggiungerebbe mai, ma ognuno sarebbe coinvolto in un processo
continuo di realizzazione. La terapia serve a favorire la crescita personale fornendo le condizioni necessarie
e sufficienti al cambiamento. La corrente transpersonale ha considerato nell’ uomo anche gli aspetti
spirituali, prima trascurati dalla visione materialistica della scienza, tuttavia ciò ha dato luogo a visioni
spesso poco scientifiche e soggette a influssi di religioni orientali e mode New Age. L’attuale approccio
neuropsicofisiologico consente una integrazione piu’ completa, su basi scientifiche avanzate, di quanto
precedentemente scoperto e sperimentato. I valori dell’ “io genetico” presenti in tutti gli uomini di tutte le
culture sono la dignita’, la liberta’, la giustizia, l’amore, che se contrastati dai condizionamenti sociali e
culturali provocano il disagio dell’ uomo che poi lotta come puo’ per far emergere queste forze interne. lo
sviluppo dell’ “io cosciente” nella psicoterapia consente all’individuo di liberarsi gradualmente dai
condizionamenti e dalle memorie del passato che tende a difendere istintivamente. Lo studio del cervello e
della coscienza operato dalle neuroscienze ha permesso tramite la teoria della lateralizzazione emiferica di
individuare una chiave di lettura scientifica dei disturbi mentali e della sofferenza. Il cervello sinistro
operando con simboli verbali e modelli rigidi utili alla sopravvivenza dell’individuo, se preferenziale, puo’
precludere la comunicazione con l’emisfero destro piu’ libero di percepire oggettivamente la realta’ e di
trovare soluzioni creative e flessibili alle molteplici situazioni della vita. Solo l’interazione interemisferica e
l’intervento dell’ “io cosciente” puo permettere un pieno sviluppo delle potenzialita’ umane e la salvagurdia
da disturbi e da disagi esistenziali . Personalmente l’esperienza del disagio esistenziale mi ha favorito fin
dall’adolescenza, fase critica per eccellenza, nella ricerca dei valori e del senso della vita che ho poi con una
lunga ricerca, spesso sofferta , trovato in una spiritualita’ libera dai legami e dai dogmi di modelli
prestabiliti delle tradizioni. La psicologia, la psicanalisi, la psicosomatica, la filosofia, la mistica e la
conoscenza scientifica liberata dal dogmatismo scientista e determinista, mi hanno aiutato a capire l’uomo in
tutta la sua complessita’, riconoscendo fin dall’ inizio del percorso che ogni discipina da sola non era
sufficiente, ma andava integrata in una visione globale e interdisciplinare. Nella visione
neuropscofisiologica integrata ho infine trovato compiuto quel lavoro di integrazione delle scienze e dei
valori umani che avevo intuito e cercato per molti anni faticosamente. Il senso della vita e’ costituito in
fondo dall’ evoluzione di tutte le forme di vita che dovremmo rispettare e favorire, e in particolare dell’
uomo, attraverso esperienze e percorsi spesso sofferti e verso una maturazione non solo biologica, ma anche
della coscienza e senza mai raggiungere sulla terra una totale perfezione. Oltre alla lotta con se stessi
purtroppo ho incontrato gli ostacoli che ogni giovane e ogni uomo incontra in un cammino di sviluppo di
se’, dovuti agli attacchi di chi difende opinioni personali , privilegi di potere, danaro e possesso , ecc. nonchè
l’invidia di chi non conosce bene la fatica del percorso e vede solo qualche aspetto positivo gia’ raggiunto
dagli altri svalutandolo per coprire il suo disagio o enfatizzandolo eccessivamente, invece che trarne spunto
di riflessione ed esempio … il disagio esistenziale ancora a volte presente e’ quindi spesso dovuto, oltrchè
alle memorie e ai condizionamenti da superare, all’ ignoranza ben difesa da molti e alla difficoltà a vivere
in un mondo governato da chi cerca più il potere e che il servizio al prossimo. Inoltre credo che, sia per me 3
che per la mia generazione, una fonte specifica di disagio esistenziale consista nel rapporto tra i due sessi in
cui, dopo la crisi dei modelli del passato, dobbiamo trovare una giusta e fisiologica identità e una positiva
comunicazione finalizzata all’aiuto reciproco. Tutto questo in una evoluzione personale e sociale e nella
prospettiva di una educazione dei figli, il più possibile libera da modelli rigidi e da alibi alla poca
partecipazione. Tuttavia bisogna considerare che il disagio spesso, anche in questo campo, se ben compreso
ed accettato, può essere fonte di stimolo alla conoscenza di se’ e al miglioramento continuo nel rapporto con
gli altri e nella comunicazione.
La psicologia scolastica potrebbe essere di aiuto ai giovani anche in funzione preventiva e di intervento
precoce ma dopo molte battaglie ancora in Italia non c’è una legge in tal senso e non è bastato unificare molti
disegni di legge in testo unico nella scorsa legislatura, ora nel nuovo governo il sen. Asciutti ha presentato
una nuova proposta in discussione al Senato che resta ferma per le note difficoltà economiche, egli tuttavia
afferma: “In realtà, tutte le ricerche a livello internazionale dimostrano che molte carriere sanitarie gravi e
gravose, sia psichiatriche, che criminali, che tossicodipendenti, possono essere evitate solo se i minori
possono elaborare i loro problemi prima che si acuiscano e si incancreniscano”... e in seguito aggiunge: “per
questi motivi tutti i Paesi civili, anche quelli più avari di spesa pubblica, hanno messo la psicologia e lo
psicologo a disposizione dei minori, dei minori normali, prima che degli adulti, persino prima che degli
adulti ammalati”.
Molti insegnanti e studiosi come Sabino Acquaviva, sociologo e Tullio De Mauro ex Ministro dell’Istruzione
hanno chiesto lo psicologo scolastico, tuttavia manca ancora la spinta dell’opinione pubblica per porlo
all’attenzione della politica.
Quindi dovremmo riflettere : è giusto anteporre sempre tutto alla salute e alla prevenzione per concentrarsi
solo sui danni, come avviene dopo incidenti stradali troppo frequenti, abuso di sostanze, suicidi, abbandono
scolastico, atti di violenza, ecc.? quanto è alto il costo economico e umano di questa scelta? Cosa deve
ancora avvenire per farci cambiare rotta ? 4
TESTO ALL’ESAME DEL SENATO
ISTITUZIONE SPERIMENTALE DEL SERVIZIO DI PSICOLOGIA SCOLASTICA
Art.l (Istituzione sperimentale e finalità del Servizio di psicologia scolastica)
l. Le Regioni a statuto ordinario, nell'ambito del territorio di loro competenza, possono istituire il Servizio di
psicologia scolastica per un triennio in forma sperimentale.
2. Le Regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano regolano la materia di cui alla
presente legge nel rispetto dei relativi statuti e delle rispettive norme dì attuazione.
3. Scopo del Servizio di psicologia scolastica, quale supporto all'attività delle singole istituzioni scolastiche e
delle famiglie è di contribuire al miglioramento della vita scolastica sostenendo lo sviluppo armonico
dell'alunno, operando per la prevenzione del disagio sociale e relazionale.
Art.2 (Criteri per l'organizzazione del Servizio di psicologia scolastica)
I. L'organizzazione del Servizio di psicologia scolastica dovrà prevedere il ricorso all'opera di strutture
specializzate o di singoli professionisti, comunque iscritti all'ordine professionale, anche mediante apposite
convenzioni stipulate ai sensi della normativa vigente, al fine di far fronte con continuità a tutte le esigenze
rilevate.
2. Le istituzioni scolastiche, nell'ambito della loro autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e
sperimentazione, possono avvalersi dei Servizi di psicologia scolastica, al fine di predisporre i progetti di
intervento, basandoli sulla valutazione complessiva dei problemi rilevati.
3. Quale contributo statale per la sperimentazione del Servizio di psicologia scolastica è autorizzato lo
stanziamento di lire 8 miliardi annui per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004, da ripartirsi fra le regioni e
le province autonome di Trento e Bolzano nella fase della Tabella A allegata alla presente legge.
Art.3 (Compiti ed attività del Servizio di psicologia scolastica)
1. Le attività svolte dal Servizio di psicologia scolastica comprendono: a) attività di consulenza e sostegno ai
docenti, agli alunni e ai loro genitori sia in forma collegiale che individuale. Gli interventi di consulenza
individuale agli alunni sono effettuati di Dorma con il consenso dei genitori;
b) partecipazione alla progettazione ed alla valutazione di iniziative, sperimentazioni e ricerche che
riguardano l'organizzazione del servizio scolastico nel suo complesso o nei suoi settori organici;
c) promozione di attività di formazione per gli operatori scolastici; d) attività di orientamento e collegamento
per e con i genitori finalizzata alla promozione e al coordinamento delle attività di orientamento scolastico e
professionale, promozione di studi sui fenomeni di abbandono e insuccesso scolastico, promozione di un
clima collaborativo all’interno della scuola e fra la scuola e la famiglia.
2. E’ compito del Servizio di psicologia scolastica:
a) operare in collegamento con altri servizi territoriali, fatte salve le rispettive competenze;
b) redigere relazioni sulle esigenze individuate e sugli interventi attuati e curare la raccolta e il mantenimento
di specifica documentazione sugli interventi effettuati e sui risultati raggiunti.
Art.4 (Sperimentazione del Servizio di psicologia scolastica) 5
1. Il Ministro dell'Istruzione, dell'università e della ricerca, sentita la Conferenza Stato-Regioni, coordina e
assicura il monito raggio della sperimentazione per la durata di tre anni scolastici, a decorrere dalla data di
entrata in vigore dalla presente legge, in vista della realizzazione di almeno un Servizio di psicologia
scolastica permanente in ogni regione o
provincia autonoma.
2. Per i compiti di cui al comma 1 è istituito, con Decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’ Università e
dalla Ricerca, un comitato tecnico- scientifico composto da:
a) due professori universita1i, di cui uno di psicologia ed uno di pedagogia, con comprovate competenze in
campo psico-socio-educativo designati dalla consulta dei presidi delle rispettive facoltà;
b) da due psicologi designati dal Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi;
c) da due psicologi designati dalle associazioni scientifiche accreditate nel
campo psico-socio-educativo;
d) da quattro delegati degli Ordini degli Psicologi Regionali, designati dal
Consiglio Nazionale dell'Ordine, tra coloro che hanno maturato esperienza
Del campo psico-socio-educativo e che siano rappresentativi delle diverse
componenti scolastiche.
3. Ai componenti del Comitato compete quale forma di compenso
un'indennità di presenza per seduta.
4. Al termine del triennio di sperimentazione è indetta dal Ministero
dell'Istruzione, dell'università e della ricerca, una Conferenza Nazionale per la
valutazione dei risultati e per i conseguenti provvedimenti. Gli esiti della
sperimentazione e le valutazioni emerse nella Conferenza Nazionale
costituiscono oggetto di una relazione al Parlamento.
Art. 5
(Copertura finanziaria)
1. Agli oneri relativi alla sperimentazione di coi all'articolo 2 determinati in
lire 8 miliardi annui per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004 nonché agli
oneri per il funzionamento del comitato tecnico scientifico, di cui
all'articolo 4, comma 2, determinati in lire 30 milioni per ciascuno degli
anni 2002, 2003 e 2004t si provvede mediante corrispondente riduzione
dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2002-2004,
nell'ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente "Fondo
speciale" dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle
finanze per l’anno 2002, allo scopo parzialmente utilizzando
l’accantonamento relativo al Ministero dell'Istruzione, dell'università e
della ricerca.
2. Il Ministero dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti
variazioni di bilancio .
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[Modificato da fabioroma77 09/03/2011 11:39]
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09/03/2011 11:40

Materiale da elaborare (parte 3)
Droghe della Nuova Generazione
Gli aspetti psicologici, culturali, sociali

Fonte: http://www.mondofamiglia.it

a- il significato dell'ecstasy per i giovani
b- nuove droghe e alcol: un continuum fra storia passata e presente
c- i genitori di fronte alla "metamorfosi" dei figli
Il significato dell' ecstasy per i giovani
Fra i giovani, alcuni più di altri sentono la necessità di "cambiare": non si piacciono, non si ritengono adeguati, temono di non essere idonei nelle relazioni sociali nella famiglia, nel gruppo dei coetanei, nella scuola. Iniziano così la ricerca di una "metamorfosi" credendola illusoriamente risolutrice dei loro problemi.
L' ecstasy, come anche le altre sostanze (alcol, cannabis, allucinogeni e altri) risponde bene a questa richiesta: solo un'ora e si assiste ad un cambiamento straordinario, che può raggiungere lo "sballo" accentuato dall'ingestione dei superalcolici.
Lo sballo è la metamorfosi estrema: potenza, armonia con se stessi e gli altri, sensualità, innamoramento. Il "miracolo" svanisce però all'insegna della rapidità, la sensualità, ad esempio, rimane una provocazione non portata a termine.
Le amfetamine e i derivati (ecstasy) sono "ideali" e funzionali ai ritmi del popolo della notte: ai giovani nottambuli è richiesto di ballare senza sosta per numerose ore, di reggere lo stress della folla e della musica, di muoversi in modo disinibito utilizzando il linguaggio corporeo altrove inaccettato. Grazie alle amfetamine l'energia fisica pare inesauribile, la mente regge la pressione della musica "assordante" e della calca danzante. Il corpo diventa quasi "autonomo" armonizzando il suo movimento con il ritmo della musica: il risultato finale è la sensazione di comunione con gli altri e di vicinanza al suono puro che ha sapore tribale.
Negli anni '60 un uso perverso della libertà, vissuta come un vuoto contenitore, fu stigmatizzata da:

"
Herbert Marcuse: La trasgressione è indotta dalle società conservatrici per poter permettere alle persone di sfogarsi e poi rientrare nelle regole
"


Fausto 28 anni: il principe della discoteca. Figlio di famiglia altoborghese, buona istruzione e una grande passione per la musica, ma non solo. Da qualche anno i suoi fine settimana sono dominati dalla pillola della felicità: la magia ha inizio prima di entrare in discoteca. "Almeno due chicche mentre aspetti che inizi il movimento" racconta, e poi il viaggio comincia. Fausto sente caldo, molto caldo, si toglie la camicia a scacchi e se la lega stretta in vita sui calzoni di pelle scura. Intanto la sua mente inizia a prendere il largo verso l'estasi o meglio l'ecstasy dello sballo. "Io calo per sentirmi in armonia, mi sento completo, aperto a sentire sensazioni pazzesche. Ma io non sono dipendente, lo faccio perché lo scelgo e mi piace continuare a farlo: perché dovrei smettere? Ti verrebbe da rispondergli: "perché sei magro come un'acciuga, perché sei pieno di tic, perché non porti a termine un discorso che sia uno senza chiederti dove sei rimasto. Ma per Fausto il suo sabato sera è già cominciato, è tempo di decollare e la musica batte più forte delle nostre voci".
La musica e le luci stesse hanno un analogo effetto di amplificazione e di modificazione dei comportamenti a livello profondo. Gli stimoli acustici di frequenza 1- 3 cicli / secondo e la musica selezionata sono in grado di favorire la produzione delle endorfine, (sostanze che riducono la percezione del dolore e potenziano la percezione del piacere) però la musica associata a luci stroboscopiche, è un indubbio fattore di rischio nei confronti della vigilanza e dell'attenzione.
La musica, così come la cultura techno, è caratterizzata da uno stile proprio ed originale. I giovani nati nel segno di pressioni ed incertezze sociali ed economiche, sentono il bisogno di trovare nuovi modi di esprimere i propri sentimenti e i propri stati d'animo. Il processo di modernizzazione ha creato nelle società occidentali nuove libertà che svincolano i singoli dagli schemi di riferimento.

La cultura techno è una nuova filosofia della vita e del tempo, filosofia che è legata alla ricerca di un nuovo approccio nei confronti della tecnologia e alla creazione di nuove realtà esistenziali, si fa però strada anche la consapevolezza di pericoli legati all'isolamento, alla dipendenza, alla massificazione e alla mercificazione indotti da questa nuova moda.
Le nuove droghe hanno una buona immagine, sono attivanti, sono un prodotto pulito della chimica e non pongono il pericolo delle infezioni.
Nel contesto socioculturale attuale le nuove droghe sono un prodotto coerente con l'esigenza di essere sempre attivi, perciò il loro consumo non è sentito inadeguato come lo è stato il consumo dell'eroina. Non è infatti infrequente sentire un genitore che minimizza l'uso di ecstasy del figlio ritenendolo un modo come un altro di essere ragazzo oggi.

Gianluca cioè problemi zero. O quasi. Figlio unico, mamma in pensione, papà operaio. Solida famiglia toscana. Gianluca lavora, fa il tappezziere, è assolutamente fuori dai canoni classici di qualsiasi forma di tossicodipendenza. L'abuso di happy pills gli ha fatto uno scherzo niente male.
Gianluca non ha dormito per tre mesi di fila, neppure un'ora. Ha iniziato ad abusare di pillole dopo il militare, in discoteca insieme al gruppo di amici abituali. Descrive l'effetto delle "cale" come un paradisiaco sogno: potenza muscolare, capacità seduttiva, armonia del corpo con la musica, sensazione di potere illimitato, eppure qualcosa non ha funzionato ed il miracolo chimico è capitolato in una notte di maggio. Tornato a casa una sera come tante altre, dopo la discoteca si è messo a letto senza chiudere occhio, e così la sera dopo e quella dopo ancora. Solo all'esasperazione è riuscito a trovare il coraggio di confidare al suo medico di famiglia che faceva uso di pillole. "Avevo toccato il fondo, racconta Gianluca, al lavoro mi muovevo come uno zombi ed avevo dolori persistenti alle braccia e alle gambe, era una situazione insostenibile che non riuscivo a contenere neppure con gli ansiolitici". Oggi sto bene e quando posso racconto volentieri la mia esperienza. Neanche i miei amici, prima di avermi visto stare così male, pensavano che "calare" potesse essere pericoloso.

L'eccitazione che deriva dall'ingestione di una "chicca" così come definita in gergo, è paragonabile all'eccitazione del gioco d'azzardo o della roulette russa, la tensione psicologica che precede l'effetto chimico della pastiglia è forte almeno quanto il suo principio attivo stesso.
Non si tratta di tentativi di suicidio mascherati. Si tratta di giochi ad altissimo rischio per riceverne fortissimi brividi e per godersi il ritrovamento di se stesso sano e salvo quando è finito il pericolo: la cultura dell'estremo crea una solida base al consumo delle nuove droghe favorendo la realizzazione di imprese personali "memorabili".
Le nuove droghe rendono efficienti, prestanti, disinibiti, eccitati, requisiti che aiutano a divertirsi, specialmente se le stesse emozioni sono vissute dalle altre persone con cui si è in relazione.
C'è il massimo sfruttamento del tempo libero. L'ecstasy è utilizzata in modo compatibile ai momenti di divertimento.
Gli effetti sopra descritti e le modalità d'uso compatibile hanno contribuito al fascino di queste nuove droghe utilizzate in combinazione con alcol, cannabis, allucinogeni ed eroina. L'assunzione combinata (poliabuso) di più droghe è quindi favorita poiché una droga viene assunta per contrastare o amplificare l'effetto di un'altra. L'eroina viene assunta per antagonizzare l'eccitazione derivante dall'uso di amfetamine e derivati dalle stesse così come le bevande alcoliche usate per accentuare l'effetto delle "chicche".

Gli effetti delle amfetamine e dei suoi derivati si oppongono in un certo senso alla solitudine del tessuto sociale creando una sensazione di comunione, appartenenza, condivisione.

Empathy, ecstasy, estasi
Dal nome originale delle pastiglie a base di Mdma "empathy" a quello attuale "ecstasy" c'è qualcosa di più di un cambio di sillabe. E' implicato un richiamo alle radici della cultura delle droghe che, alimentando la ricerca dell'estasi, aprono una via illusoria verso l'onnipotenza e l'immortalità. Lapsus o abile scelta di mercato?






NUOVE DROGHE E ALCOL: UN CONTINUUM FRA STORIA PASSATA E PRESENTE
Nella cultura greca Dioniso è l'estasi e cioè "il superamento della condizione umana, la scoperta della liberazione totale, il raggiungimento di una libertà e di una spontaneità inaccessibili ai mortali". (Eliade)
Il vino era per i greci la bevanda della "immortalità" che permetteva la trasgressione ed il superamento del limite socialmente condiviso. Analogamente all'inizio del nostro secolo la filosofia parlava del vino ancora negli stessi termini (ebbrezza e trascendenza).
Il simposio è il luogo dove ogni forma di comportamento, trasgressivo o meno, può essere concepito e previsto. Esplorare oltre alla soglia di ciò che è ragionevole e normale può essere rischioso: esiste il pericolo del naufragio.

Ogni epoca ha avuto i propri dei e il loro crollo portando costantemente alla ricerca del sacro. I comportamenti dei giovani d'oggi sottolineano la ciclicità di questa verità storica. C'è nei giovani un'esigenza di sacralità e di mistero che genera paura e fascino. A questa esigenza risponde la discoteca che è una cattedrale anche se non ideale. Il sacro è un bisogno che si esprime col rito. Da qui la ritualità della discoteca: preparazione, travestimento, ballo, musica, ecc.

Marcella 24 anni parrucchiera. Il suo fine settimana è un nostop passando da un locale all'altro. "Io amo la discoteca e tutto quello che ci sta dentro, pasticche comprese" ci dice. "E' vero che probabilmente ci alimentiamo di un'illusione ma per molti di noi lo sballo è la cosa migliore che capita in tutta la settimana. Ti potrei dire che ti senti un po' come cenerentola. Vivi una trasformazione che è difficile a spiegarsi, diventi la regina della sera e non tanto perché gli altri ti guardano ma perché tu ti senti importante. Ne ho viste di persone stare male dopo aver calato ma credo che avessero fatto dei miscugli caserecci, ci sono sempre quelli che esagerano." Marcella è solo una delle tante ragazze che stasera fra le mille luci psichedeliche si sentono regine ma fra poco è lunedì e l'abito bello, e la magia svaniranno. Alla realtà non si sfugge per più di poche ore, e poi quella di cenerentola è solo una fiaba.




I GENITORI DI FRONTE ALLA "METAMORFOSI" DEI FIGLI
I genitori spesso si lamentano per la superficialità e la difficoltà dei propri figli a pianificare il proprio futuro. A volte le nuove generazioni sono guidate da padri scarsamente consistenti ed educatori non sempre coerenti che si misurano con un mondo che pensa solo a domani mattina. Sarebbe auspicabile una trasformazione sociale che ponesse al centro una famiglia "viva" composta da eroi quotidiani a casa propria. Padri, madri e giovani che generino una modalità di relazione gratificante ed escludente metamorfosi rapide come quelle conseguenti l'uso di sostanze .
Il disagio giovanile può risolversi in una crescita o in un blocco patologico.
Le metamorfosi conseguenti all'uso delle sostanze o "sballo" sono funzionali al superamento del disagio patologico che diventa paura, fuga, depressione, violenza.
A queste dinamiche rispondono spesso i genitori con comportamenti equivalenti che creano un abbraccio mortale intergenerazionale che porta alla reciproca distruzione.
I giovani di questa generazione sono fragili, caratterizzati dalla mancanza assoluta di principi. Lo si vede bene perché mancano del senso del limite, credono sia possibile far tutto e sempre. Mancano del senso della storia ma anche della propria storia personale, per loro non esistono principi morali poetici o meglio esiste l'etica della circostanza: puoi sempre fare tutto dipende da come e quando. Tutto questo non nasce dal nulla ma da un humus creato dalle generazioni precedenti. L'interesse al successo, alla corsa affannosa alle conquiste dei genitori ha creato degli anatroccoli desiderosi di metamorfosi suicida nel presente.
Le amfetamine e i derivati sono state chiamate anche "droghe ricreazionali". Averle così denominate ha dato loro una connotazione di leggerezza. Il messaggio ricreazionale è però subdolo ed ha bisogno di argomenti forti per essere scalzato. La ricreazione, non solo nell'adolescenza, ma in qualsiasi età della vita di ognuno, viene cercata per rigenerarsi dalla fatica, per mettersi nelle condizioni di ritrovare se stessi, per divenire creativi e per ritrovare l'altra parte di sé.

L'assunzione di ecstasy e delle altre sostanze è invece una scappatoia per raggiungere un illusorio benessere e felicità. Comprare ecstasy per ottenere estasi significa vendere ai giovani un'illusione a basso prezzo. In questo nostro tempo che è il tempo delle comunicazioni di massa, degli scambi per fasci di luce e delle relazioni virtuali, lo sbocco verso forme di finta ecstasy può portare a lungo andare verso la morte fisica (danni cerebrali irreversibili) e psichica (perdita del ruolo sociale e restringimento in un mondo allucinatorio).


Paola 16 anni e tanta voglia di trasgressione. "La routine mi sembrava massacrante ed ero stufa di essere vecchia", così quando Maurizio le ha proposto un viaggio con l' LSD non ci ha pensato due volte e l'ha seguito. "Ho preso un mezzo francobollo, un Panoramix, il più forte della piazza. Dopo due ore, il mio cuore ha iniziato a battere all'impazzata, temevo uscisse dal petto, e poi le luci bianchissime come gocce mi colpivano a flash dentro e fuori. E' inspiegabile cosa ho provato. Le mie mani si allungavano come fossero elastiche e il mio viso visto allo specchio era deformato e non riuscivo a controllarne i movimenti. Dopo questa esperienza non ho più preso pasticche, avevo il terrore che queste sensazioni potessero tornare ed ogni volta mi dicevo: chissà se riuscirò ad essere mai normale come prima. Mi sono confidata con una compagna di scuola che mi ha portata a casa sua e mi ha fatto parlare con sua madre che è medico. Mi è servito soprattutto sapere qual è l'effetto chimico dell'acido e delle amfetamine sulle cellule del cervello, non ne sapevo niente e per fortuna dico adesso perché solo a pensare cosa ho rischiato mi viene la pelle d'oca…"

La cultura di ognuno di noi è influenzata e plasmata dall'ambiente. Un'analisi sociologica ci porta a dire che il declino della modernità, con i processi di frantumazione e di scomposizione del territorio, ha ridotto gli spazi di protezione sia all'interno della famiglia nucleare, sia nella famiglia allargata come anche nel quartiere fino al comune e alle grandi metropoli.
Un tempo la giungla era al di là del villaggio, poi la società complessa e minacciosa è apparsa appena fuori "dalle mura" della comunità, dei vicini e della famiglia. I giovani oggi sono cuccioli smarriti costretti a vivere nella foresta senza avere strumenti per riconoscere e difendersi dalle insidie. Un anonimo dice "la vita ti dà quello che ti serve, se invece pensi che non ti serve incominci a combattere con la vita e la vita non ti dà più niente".
La comunità oggi si presenta misteriosa generatrice di differenza fino alla porta di casa, senza che questo riesca a fornire il rassicurante calore della protezione, dell'appartenenza, dell'identità. I giovani sono costretti a vivere e a crescere per diventare adulti spesso senza guida, senza armi culturali, senza poter godere di luoghi di riposo e di ristoro, appunto i luoghi della ricreazione.
Il compito degli adulti, è quello di dotare i giovani di conoscenze, di abilità, di competenze psicologiche adatte al superamento delle difficoltà della vita di tutti i giorni. E' necessario muoversi verso una strategia di promozione della salute che privilegi la componente affettiva delle relazioni.
Questo processo dovrebbe coinvolgere anche la scuola, le altre agenzie educative e le istituzioni pubbliche. Questo è un punto sul quale è necessario insistere perché, ad esempio, anche la scuola e le grandi istituzioni sono "templi del verbale" dove la relazione affettiva viene trascurata o addirittura eliminata per evitare conflittualità che non si è in grado di gestire. Si potrebbe dire che la tendenza è "tener lontano qualcuno o qualcosa che appartiene alle nostre fantasie ma con cui abbiamo paura di confrontarci". Non è questo un segno di violenza?! Per andare contro tendenza è necessario un programma che abbia l'obiettivo di coinvolgere i giovani direttamente nella campagna di informazione, di prevenzione e di solidarietà.
Vi è molta necessità di informazione alle famiglie ma anche ai ragazzi che spesso sono all'oscuro degli effetti psicofisici delle sostanze: l'unico messaggio che sembra recepito è che l'eroina equivale a morte. Come si intende interagire con il primo mondo di socializzazione che è la scuola? Come si intende affiancare la figura genitoriale ed educativa dell'insegnante? Come si intendono attivare servizi di trattamento integrati fra loro, alla pari, con un atteggiamento di confronto costruttivo? Perciò abbiamo ritenuto necessario, come Comunità terapeutica, divulgare le nostre considerazioni a tal proposito anche in considerazione della non completa veridicità di un messaggio molto diffuso: solo l'eroina equivale a morte, le altre droghe sono "leggere" e "ricreazionali" cioè un optional del divertimento.

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La psicologia dietro Facebook e i social network

Fonte: http://www.dylanblog.com

Facebook può essere senza dubbio considerato una delle più grandi invenzioni degli ultimi decenni, questo è dovuto sia alle innovazioni nell’ambito di internet che ha introdotto, sia cambiamenti che ha apportato nella vita sociale dei singoli individui. Ma cosa si nasconde dietro l’inaspettato successo di Facebook? Alcuni sostengono che Facebook sia il metodo di comunicazione delle nuove generazioni altri invece, dietro il suo successo, vedono una manifestazione esplicita di alcuni aspetti “psicologici” dei giovani.
Una forma di autoritratto
Lasciare una traccia di sè è sempre stata una necessità insita in tutti gli esseri umani di tutte le epoche storiche, in passato si usavano i ritratti, oggi i social network. I ritratti davano come un senso di ricchezza e di eternità, ma soprattutto davano importanti informazioni riguardo alla persona ritratta: ambizioni, carattere e status sociale. Allo stesso modo, i profili di Facebook possono indicarci i principali tratti psicologici dei loro possessori, e più in generale possono darci un’idea di come siano i giovani e di come questi vedano sè stessi.
Gli autoritratti (intesi in qualsiasi forma) mostrano quindi come gli autori vedano se stessi, come vorrebbero essere, inoltre chiarificano o nascondono alcuni tratti della personalità. Alcuni mostrano egoismo, narcisismo, fiducia in sè stessi, mentre altri mostrano tutto il contrario. I “ritratti” o profili che vengono creati su internet servono a fare conoscenze, a trovare l’amore e a creare quella moderna ed ambigua cosa chiamata “connessione sociale”.
I social network sono però ancora in uno stato che potremmo definire “embrionale”, ma nonostante ciò stanno già influenzando tantissimi aspetti della vita, la politica, il linguaggio, modi di fare…Detto ciò, possiamo affermare che i risvolti di questo fenomeno sono conosciuti e capiti solo in piccola parte, non abbiamo ancora idea di quali conseguenze Facebook possa portare nell’ambito della privacy, comunità e soprattutto identità sociale.
L’importanza della “virtual friendship”
Un aspetto importante di Facebook, è il numero di amici che una persona ha, anzi, molti studiosi vedono in questa gara la vera ragione di esistere dell’intero social network. Però nel mondo dei social network, l’amicizia è un concetto profondamente diverso da quello che noi intendiamo nel mondo reale. Nella vita reale l’amicizia implica una serie di confessioni o rivelazioni intime che vanno oltre i confini della privacy e che mettono in relazione due o più persone. Questa componente di “intimità” si perde parzialmente nei social network, nei quali l’amicizia diviene un qualcosa di pubblico o meglio “esposto”.
Certo sarebbe sbagliato dire che le persone non sanno più distinguere tra una vera amicizia ed un’amicizia virtuale, comunque si potrebbe dire che i due concetti si stanno avvicinando. Una cosa molto significativa è il bisogno di “collezionare” quanti più amici possibili, questo bisogno (che alcuni definiscono “impulso”) non è l’espressione concreta del bisogno umano di compagnia, ma la forte necessità di crearsi uno status per sentirsi importanti.
Un esempio eclatante di tutto ciò sono le persone che creano degli account fake e si fingono dei vip, tutto ciò per adescare centinaia di fans da aggiungere alla propria collezione di amici. Questo comportamento che potrebbe sembrare insensato è in realtà un comportamento atto provare la propria importanza, a crearsi uno status anche se fasullo.
L’aspetto psicologico
I comportamenti sui social network sono un chiaro indizio di come i rapporti di amicizia stiano diventando sempre più di scarsa qualità e di come l’autostima dei facebook-maniaci stia calando, il professor Qingwen Dong della University of the Pacific dice:
“those who engaged in romantic communication over MySpace tend to have low levels of both emotional intelligence and self-esteem.”
Questa osservazione credo si possa estendere anche alle amicizie e Facebook. In breve i social network sono visti come una forma di esibizionismo, narcisismo e richiesta di maggiore considerazione, ma carcando di apparire migliori di quanto non siamo su Facebook, dimentichiamo di migliorarci effettivamente nella vita reale. Tutto ciò rivela una sorta di timore o meglio vera e propria paura di una vera amicizia che potrebbe rivelare la nostra vera vulnerabilità e inadeguatezza.
Se il motto dell’Oracolo di Delfi diceva “conosci te stesso”, oggi, nel mondo di Facebook, il motto è diventato “mostra te stesso”.
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La comunicazione con le nuove generazioni

Fonte: http://www.easybaby.it/psicologia/item/44-comunicazione_bambini.html

La comunicazione tra genitori e figli non è mai stata una questione semplice, ma negli ultimi anni il problema sembra essersi complicato. Forse i genitori di oggi sono più aperti all’ascolto dei figli, o forse la generazione 2000 è diversa da quelle precedenti.

Per capire cosa rende la comunicazione con le nuove generazioni così difficile e per cercare un modo di comunicare serenamente con i nostri figli, abbiamo intervistato la Dott.ssa Chiara Sozzi, pedagogista e terapeuta delle relazioni familiari.
Perché la comunicazione tra adulti e bambini oggi sembra così difficile?
“I nostri figli stanno crescendo in un mondo diverso da quello in cui siamo cresciuti noi. Hanno un modo completamente nuovo di affrontare la realtà. In un certo senso, noi siamo cresciuti seguendo il motto “prima il dovere, poi il piacere”. Per le nostre generazioni il “dovere” visto come impegno, fatica, sacrificio è l’obbiettivo primario da perseguire. Ma se ci si dedica soltanto al “dovere”, si finisce per relegare in un angolino il “piacere” e così facendo è come se ci scollegassimo dalle nostre emozioni. I bambini di oggi, al contrario, sembrano essere in stretto contatto con la propria sfera emotiva. E non riescono a comprendere perché i genitori cerchino in ogni modo di reprimere le emozioni a favore del “dovere”. Da qui nascono i disagi e le difficoltà di comunicazione”.

Come si manifestano i disagi della nuova generazione?
“I bambini si trovano disorientati e reagiscono essenzialmente in due modi: contrapponendosi ai genitori oppure isolandosi. Nel primo caso, se l’adulto si impone, il bambino si oppone. Non riesce a comprendere il punto di vista del genitore perciò reagisce urlando, piangendo e agitandosi nel tentativo di farsi ascoltare. Altre volte, invece, il figlio si isola, rinunciando a comunicare con chi non lo comprende e chiudendosi in una sorta di mutismo o abbandonandosi passivamente davanti alla TV.”
Cosa possiamo fare per comunicare in modo adeguato con i nostri figli?
“Urlare affinché i bambini ci obbediscano non serve a niente. Invece di ordinare, dovremmo chiedere, proponendo loro di partecipare e collaborare. La generazione 2000 non può scollegarsi dalle proprie emozioni. Essendo bambini, hanno però bisogno di una guida. Ma l’educazione classica non basta. Serve anche un’educazione emozionale. E l’unico modo per educare i nostri figli a gestire le proprie emozioni, è che noi genitori per primi cerchiamo di ristabilire il contatto con la nostra sfera emotiva. Solo ripristinando il collegamento con le nostre emozioni potremo capire a fondo i nostri figli, garantendo loro una crescita serena e armoniosa”.
La Dott.sa Chiara Sozzi è anche l’ideatrice di “Famiglia oggi: radici e ali”, progetto che si pone l’obbiettivo di aiutare i genitori a recuperare il contatto con la propria sfera emotiva e risolvere eventuali problemi di comunicazione con i figli. Il progetto si concluderà con un incontro che si terrà il 1° novembre in provincia di Brescia, dove relatori e genitori avranno modo di confrontarsi di persona. Ma la collaborazione inizia già da ora sul blog: chiunque può scrivere per chiedere pareri o per suggerire idee e spunti. Basta cliccare qui.
“Famiglia oggi: radici e ali” non è solo per i genitori: la giornata del 31 ottobre è dedicata a coppie e single, che fin da subito possono partecipare all’iniziativa scrivendo nel blog.

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Bullismo shock: scuola e invasioni barbariche

Fonte: http://www.palermoweb.com/psicologia/mente1.asp?ID=35

La scuola è di nuovo sotto accusa e, genitori, insegnati, politici si interrogano per cercare di comprendere e trovare soluzioni reali per l’ondata di violenza shock che i più giovani manifestano nel contesto scolastico (e non solo). Ma, prima di entrare nel merito della mia riflessione psicologica sugli avvenimenti, non posso non sottolineare che, il dibattito, mostra l’aggressività giovanile come se fosse un fatto nuovo, non facendo riaffiorare alle menti avvenimenti del passato che già hanno evidenziato la presenza di un malessere molto forte tra i più giovani, quali, ad esempio, sassi buttati giù dai cavalcavia, orridi omicidi commessi da adolescenti con a capo Erika, atti vandalici tra i più svariati, ecc.; si parla di disagio giovanile, che si esprime con comportamenti aggressivi e al limite del rischio e della morte, come se fosse un fatto nuovo sconosciuto al nostro paese. Tra l’altro, sicuramente uno degli errori che si commette nel tentativo di capire il fenomeno, è quello di trattarlo come separato da sé, poiché, molti pensano, che riguarda le nuove generazioni e, si crea, così, psicologicamente, una separazione tra giovani e adulti, dove i giovani appaiono enigmatici, incapibili e ‘stranamente’ violenti, inseriti in un mondo adulto ‘normale’ che li osserva e, se ne dissocia perché non può comprendere ciò che è giovane; purtroppo, non è così. L’adolescente in realtà, con il suo disagio e malessere, riflette, come uno specchio, quel particolare momento storico e culturale in cui è inserito; momento storico è culturale che è adulto. Il motivo del fallimento di molte politiche e progetti di intervento sul malessere psicologico giovanile è proprio questo: trattare il disagio giovanile contemporaneo come qualcosa che non appartiene al mondo adulto e, presupporre che la sua risoluzione, deve trovarsi soltanto nei giovani.
(Torino) Un ragazzino down, in una classe con ragazzini diversi da lui, debole, solo, senza la mamma e il papà, probabilmente con handicap cognitivi che possono non fargli cogliere appieno ciò che sta avvenendo attorno a lui, circondato, braccato, aggredito, schernito, insultato e picchiato da ragazzini più forti di lui che ne fanno il capro espiatorio di un gruppo che sollecita, ride e, indifferentemente, osserva. Il mediatico avanza, tutto viene filmato e messo su google nella categoria dei video che più fanno ridere, occupa immediatamente le più alte posizioni tra i video più scaricati e, tutto il mondo, può osservare, impotente, quel ragazzino down che diventa la riproposizione archetipica lontana dell’arcaico simbolo del più debole che, crocifisso, bruciato al rogo, o dentro camere a gas, soccombe al più forte. (Ferrara) Ragazzine quindicenni, nuove amazzoni della tanto sbandierata tendenza delle ‘pink-girls’ con una vera e propria spedizione punitiva, aggrediscono e picchiano una compagna colpevole di essersi innamorata di un ragazzo che interessava a loro. Altre ragazzine altre storie, come il raccapricciante fatto di bambine prostitute tenute prigioniere, schiavizzate e segregate a Roma. A tutto questo il mondo adulto come risponde? A parte i diversi forum che si possono rintracciare su internet di frasi che esprimono violenze tra le più svariate, è disponibile nei negozi, un video gioco pensato, messo a punto e realizzato dalla mente di adulti diretto a ragazzini, che prevede, nel caso di vittoria, seppellire viva una bambina. Con la modernità che avanza, quindi, sembriamo tornati indietro di secoli alle barbarie e, il presidente del consiglio, che apostrofa gli Italiani come impazziti perché non comprendono la finanziaria, forse, non dovrebbe tralasciare di osservare il costante delirio emozionali e psichico che attraversa e che, ad esempio, in una casa di riposo (Roma), ha visto medici e infermieri, adulti, maltrattare gli anziani residenti. Che bella scuola! Reale e di vita. Senza tralasciare l’avvenimento di quella professoressa che, sorpresa in inequivocabili atteggiamenti sessuali con 5 ragazzi in classe, ad alcuni, ha fatto sorridere perché il fatto sembra il revival di quei film erotici anni ’70, oggi considerati cult-movie, che avevano come protagoniste insegnati e maestre. Purtroppo non è un film che la scuola tra bullismo, shock e inadempienze è una vergogna: noia, demotivazione, mancanza di rispetto, classi sovraffollate, ritmi massacranti per i professori, competenze parcellizzate e bullismo. Il bullismo, è presente anche in Sicilia come testimoniano molti dati. Psicologicamente, il bullismo è un’azione di prevaricazione e prepotenza, attuata da un singolo o da un gruppo, esercitata in maniera continuativa nel tempo, che comporta azioni di molestia e aggressività nei confronti di una vittima predestinata. Le azioni possono manifestarsi sia in modo diretto, con attacchi espliciti, sia in forme di isolamento sociale nei confronti della vittima. I ragazzi troppo aggressivi o, troppo poco aggressivi, hanno cause simili legate a situazioni psicologiche non risolte che hanno prodotto una fragilità emotiva e caratteriale con risposte aggressive nelle sue due forme: aggressività diretta al mondo esterno e, aggressività rivolta al mondo interiore. Manifestano, infatti, una continua tensione e insoddisfazione correlata a sentimenti di vuoto e inadeguatezza espresse in condotte aggressive, violente e antisociali, ma anche a condotte passive, introversione e isolamento come nel caso della vittima. Quando le azioni di prevaricazione sono continuative nel tempo, si crea un sottile legame che lega il persecutore e la vittima. Per comprendere questo, gli adulti, possono, ad esempio, fare riferimento a tutte quelle situazioni di violenza (agita o passiva) quali, ad esempio, donne maltrattate da uomini che hanno sposato, soprusi costanti nel mondo del lavoro (tra cui il mobbing), ecc. Tra i fattori che predispongono al bullismo, sicuramente stili educativi improntati allo scarso coinvolgimento emotivo, alla coercizione o al permissivismo influenzano, però, è errato considerare il persecutore come violento è basta, perché, molto spesso è un ragazzino che vive una situazione di violenze, anche non verbali e psicologiche nei suoi confronti, da ciò, attraverso l’uso della manovra mentale dell’identificazione con l’aggressore, cerca di mantenere sotto controllo, dentro di sé, i traumi psichici per la realtà caotica che vive. Facile dire bullo, camorrista, assassino ma, fintanto che non si avrà il coraggio di guardare al mondo interiore e cosa cela, sarà difficile capire come intervenire. Richiamandoci alla legge 292/97 art. 4 per lo sviluppo del benessere e il miglioramento della qualità della vita dei minori, si sottolinea come la scuola, oltre che nel suo ruolo di educazione del minore, ha una responsabilità decisiva nell’azione di prevenzione e contrasto del bullismo, dovendo richiamare con fermezza valori quali il rispetto della persona, della convivenza civile e al confronto non aggressivo. La scuola dovrebbe credere ad un bambino reale con la sua soggettività ricca di emozioni, storie e imprevedibilità. Il bambino/ragazzo, non deve essere spinto alla competizione con gli altri compagni di classe, o al primato scolastico e sociale. Spesso la scuola rende i bambini insicuri sviluppando insicurezze e ansie che iniziano già nelle interrogazioni e, molti adolescenti, raccontano come nelle classi si vive l’incubo dell’insuccesso ma, la scuola deve favorire la crescita e lo sviluppo armonioso della personalità del ragazzo, tenendo conto della necessità dei genitori che lavorano e sono estremamente preoccupati che la struttura scolastica non sia in grado di accogliere, favorire la socializzazione e il benessere collettivo. E ora di fare prendere alla scuola una nuova direzione. A questo proposito, sarebbe auspicabile che, come nella maggior parte dei paesi europei e statunitensi, lo psicologo fosse presente nelle realtà scolastiche con un vero e proprio sportello di consulenza e non, con lavori a progetto brevi, precari e circoscritti.
Infine un consiglio ai ragazzi che ingoiano umiliazioni e lacrime, il consiglio di parlarne, di non tenere tutto dentro, di rivolgersi all’insegnante, al preside, alla polizia, allo psicologo, alla famiglia a chiunque possa aiutarli, perché il coraggio si mostra non subendo ma avendo la forza di uscire dal vincolo della paura e chiedere aiuto.
[Modificato da fabioroma77 09/03/2011 11:49]
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Materiale da elaborare (parte 4)

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Dipendenze e Abusi: Percorsi e mutamenti sociali: i giovani e le sostanze psicoattive

Fonte: http://www.psiconline.it/article.php?sid=1598

Roberta Campo, dottoranda di ricerca in Psicologia generale e clinica presso l'Università di Palermo
Laura Pavia, dottoressa in Psicologia

La transizione dalla società industriale a quella post-industriale ha comportato una molteplicità di mutamenti da cui i singoli individui sono stati condizionati e che, a loro volta, hanno influenzato. Nell'arco di tempo compreso tra gli anni '60 e gli anni '90, quindi, i diversi modelli di consumo di sostanze psicotrope si sono succeduti parallelamente ai mutamenti sociali, tecnologici, politici ed economici avvenuti negli ultimi anni nella società.

Tali cambiamenti hanno favorito la "legittimazione del desiderio di mutamento individuale" (Francescato, Ghirelli, 1994): le società contemporanee sono caratterizzate dal prolungamento del periodo dedicato agli studi, dal conseguente ritardo dell'entrata nel mondo lavorativo e dal posticipato abbandono del "nido" familiare. Tutto ciò fa sì che i giovani si trovino in una situazione di incertezza nei confronti del futuro, in un continuo gioco di rimando tra anomia e caos.



In questa interazione reciproca tra sociale e individuale, tra il versante istituzionale e quello privato, i micromutamenti avvenuti nell'ambito della società hanno comportato profondi cambiamenti nella psiche umana, nei rapporti interpersonali, tra i sessi e tra le generazioni, creando nuove opportunità ma anche nuovi problemi.
Nell'ultimo decennio si è, infatti, assistito su più piani alla destrutturazione dell'organizzazione sociale, che riguarda (Buzzi, Cavalli, De Lillo, 1997):
· Il piano lavorativo: la disoccupazione sempre più crescente e la flessibilità lavorativa del part-time fanno sì che non ci sia più coincidenza tra il tempo del lavoro e la proiezione temporale.
· La perdita progressiva del significato sociale dell'istituzione familiare: le nuove generazioni hanno accesso alla sessualità a partire dal momento in cui la possono agire. Questo ha un doppio significato: da un lato accentua la libera espressione di sé, dall'altro accentua la percezione della provvisorietà del rapporto anche in coppie da lungo tempo rodate.
· Il cambiamento nella percezione del tempo: in passato il tempo era percepito come lineare, un tempo cioè che implicava "programmazione, sacrificio, capacità di rinuncia, di attesa e attivazione delle capacità costruttive" (Crispi, Mangia, 2000, pag. 36). In questo senso, la percezione del tempo coincideva con il ciclo agrario e con quello della natura, in cui vi era un ripetersi continuo di conquista e perdita di nuove situazioni, consentito dai momenti di festa in cui le eclissi della ragione erano permesse di anno in anno. Oggi, invece, si tende per lo più ad una rappresentazione del tempo circolare, che richiede maggiore "capacità di improvvisazione, adesione all'edonismo e ai modi di soddisfacimento pulsionale non dilazionato, nonché la consapevolezza della transitorietà del proprio essere nel mondo." (ibidem, pag. 36).
· La scissione temporale: rappresenta un'altra forma di flessibilità per cui i giovani accetterebbero il tempo ordinario, "routinario" e noioso del lunedì, perché esiste il week-end con il suo significato liberatorio.
· La valorizzazione della reversibilità delle scelte: le scelte che si compiono non sono mai vissute come definitive, ma come reversibili, laddove in passato il valore di una scelta era dato proprio dalla sua irreversibilità.
"L'individuo tende sempre più ad autoriferirsi, a cercare in sé stesso, nelle proprie risorse, ciò che precedentemente trovava nel sistema sociale di significati e di valori cui apparteneva la sua esistenza. L'indeterminatezza delle nostre società in perpetuo mutamento, lo sradicamento dei riferimenti collettivi, proiettano ogni individuo verso una ricerca di significato e del valore della sua esistenza. (…) Così l'individuo, in assenza dei limiti di significato che le nostre società dovrebbero fornirgli, cerca intorno a sé dei limiti effettivi e tangibili. Il reale tende a sostituirsi al simbolico, e il prendere rischi acquista, in tal senso, un'importanza sociologica considerevole" (Le Breton, 1995, pag. 48).

La società "normalmente tossicomanica"
Non dovrebbe sorprendere, quindi, che le designer drugs, sostanze sintetiche inizialmente immesse sul mercato dalla chimica farmaceutica per migliorare il trattamento dei quadri psicopatologici gravi, siano entrate velocemente a far parte delle abitudini giovanili per alterare gli stati di coscienza.

Già negli anni d'oro dell'LSD si era sentita la necessità di una sostanza simile, ma con effetti meno allucinogeni e devastanti: l'ecstasy e i suoi derivati producono un trip di breve durata che non entra in collisione con i ritmi produttivi e di efficienza sul lavoro.

Ciò sembrerebbe, quindi, spiegare il motivo per cui un numero crescente di giovani sia più sensibile al fascino di certe sostanze illegali: prima dell'incontro con esse, i giovani d'oggi hanno cominciato a prendere pillole legali già dall'infanzia.

"Nella vita di chi è sottoposto a una richiesta crescente di rendimento, le sostanze eccitanti (per tenere svegli e migliorare l'efficienza) e, per controbilanciarle, i sonniferi e i sedativi, rivestono un ruolo sempre più importante" (Amendt, 1995, pag.16); oggi, gli stimolanti penetrano anche nell'ambito del tempo libero.
I giovani, quindi, hanno la possibilità di scegliere la sostanza giusta a partire da uno specifico desiderio, fenomeno che Ingrosso (1999) denomina effetto supermarket. Sembra, così, crearsi un connubio inscindibile tra la farmacopea della droga (Collin, 1998) e la farmacopea dei desideri (Ingrosso,1999).
La chimica, oggi, ha il sopravvento e, come ci ricorda Galimberti, la droga è diventata un problema per il fatto di "essere stata sottratta al mondo mitico-rituale - in cui è sempre circolata con la facilità e la semplicità con cui si esprimono tutte le abitudini della vita quotidiana - per essere inserita in un mondo scientificamente determinato in cui la ritualità, che cadenza comunque la vita dell'uomo, non trova più la sua andatura, perché il fattore chimico agisce nell'immaginario collettivo con l'inesorabilità che neppure un dio sfiora." (Galimberti, 1991, pag.6).

I giovani d'oggi sono nati in un mondo ormai quasi del tutto computerizzato e chimico: la decisione di assumere o no ecstasy è solo una delle tante valutazioni che si trovano a fare nel quotidiano confronto con i rischi della chimica. In questo contesto, le sostanze psicoattive sembrano essere un oggetto adeguato e di facile consumo.
Questa visione della droga, nell'accezione pharmacon (1) (Martignoni, 1986), sembra direttamente collegata al fatto che l'oggetto (sostanza-di-consumo) diviene fortemente demetaforizzato, restando "slegato dalla catena significante che dall'iniziazione a grande efficacia del mito (…) scivola (…) a un reale-iper-reale del bisogno cellulare" (Martignoni, 1986, pag.76).

C'è tutto un mondo che assume farmaci: non tanto per curarsi quanto per aumentare le proprie potenzialità fisiche e relazionali (Ingrosso, 1999; Camarlinghi, 2000). Vi è, quindi, una sorta di consonanza tra le "nuove droghe" e le tecniche di potenziamento tipiche della nostra società, e ciò si inquadra "in uno scenario di manipolazione tecnologica del sistema psicosomatico e relazionale-comunicativo dei soggetti finalizzato al soddisfacimento di bisogni o desideri di tipo esplorativo (di emozioni, sensazioni, ecc.), socializzante, curativo, contenitivo (di paure, angosce, ecc.), ricreativo, operativo, creativo, simbolico e così via." (Ingrosso, 1999, pag. 14).
Più che un'incapacità di relazioni oggettuali, si nota una polimorfia degli oggetti, che divengono tramite desimbolizzato e che permettono di accedere alla gratificazione immediata. Ma, al contempo, questa stessa polimorfia comporta che l'oggetto perda la sua specificità di "accesso alla gratificazione". Sembra esservi la possibilità di aggirare l'ostacolo e la frustrazione attraverso una sorta di "telecomando mentale"(2): al primo accenno di frustrazione è possibile accedere alla gratificazione, e quindi al piacere, cambiando l'oggetto.

La società narcisistica
La cultura dell'ecstatsy esprime, ovviamente, alcune caratteristiche della più ampia cultura occidentale in cui è inserita e che per certi aspetti potrebbe definirsi "narcisistica"(3).

Infatti, sembrano prevalere la tendenza alla soddisfazione immediata dei bisogni e l'incapacità di tollerare attesa e limiti vissuti come insopportabili elementi di frustrazione. Il soddisfacimento sfrenato di tutti i propri bisogni si è sempre proposta come la condotta più seducente del mondo; purtroppo, però, come ricorda Freud, ciò significa anteporre il godimento alla prudenza, alla riflessione e alla possibilità di accedere ai propri desideri. Tutto ciò, sembra favorire l'attuale tendenza a ridurre o, addirittura, ad abolire completamente ogni spazio/tempo che potrebbe essere dedicato alla riflessione. Una delle possibili ipotesi che si potrebbero avanzare a questo riguardo è che alla velocizzazione dei ritmi farebbe da correlato psichico la tendenza individuale a mantenere alta e costante l'eccitazione, il cui venir meno sarebbe avvertito come un apparente svuotamento di senso e di significato della propria esistenza. L'estrema velocizzazione dei ritmi della vita porta a uno stato di eccitazione il cui venir meno è sentito come un insostenibile svuotamento di senso dell'esperienza: la velocità è associata all'euforia, all'ebbrezza, all'instabilità, al rischio, allo spreco e all'allegria e si contrappone, nell'immaginario collettivo, alla lentezza cui gli attributi di sobrietà, stabilità, durevolezza, sicurezza, noia e conservazione, in quest'ottica, conferiscono una valenza prettamente negativa. L'estremismo dell'una porta all'impoverimento dell'altra: un'estrema e cieca velocità porta a ciò che Calabrese (1988) denomina imbottigliamento (4), impoverendo lo spazio della lentezza, l'unico in cui trova territorialità il tempo dell'attesa e dell'intervallo. Gli intervalli sono la condizione necessaria per prendere le distanze da una presenza/consapevolezza, altrimenti ingombrante, di sé e del mondo che consenta la germinazione di elementi di creatività che trovano il loro humus nella capacità di tollerare la mancanza e nel piacere derivante dal desiderio che, da questa mancanza, nasce. I giovani, al contrario, temono e sfuggono questo momento e investono sempre più le proprie energie mentali in delle occupazioni pragmatiche e strumentali, ben lontane dalla pura e semplice riflessione e, quindi, dalla possibilità di riflettere sul proprio futuro.

L'ecstasy, così, sembra essere la sostanza che maggiormente permette di dare uno scopo concreto alla ricerca di una gratificazione nei termini di eccitazione/piacere. La droga, e l'ecstasy in particolare nella sua funzione performativa, permette di avvicinare il proprio funzionamento fisico e mentale a quello di una macchina, mantenendo il livello delle prestazioni formite su un plauteu che si erige su di un tipo di funzionamento che è legato alla logica dell'eccitazione (più che a quella del desiderio), in cui la ricerca costante del miglioramento delle performance individuali mediante l'assunzione "normalizzata" di droghe si raggiunge, non attraverso un "sentire dal di dentro" ma da un "sentire dal di fuori"definito come stato di eccitazione costante mantenuto e assicurato collocando il centro della sensibilità al di fuori dell'uomo. "Si tratta di un "sentire" che non avendo punti di rottura, né di intensa espressione, rimane "trattenuto e privo di salti", qualità che consentono il permanere di una capacità di "prestazione" continua e per questo più efficiente" (Crispi et al., pag. 242)

La nostra sembra essere una società che, in un certo senso, facilita l'accesso "motivazionale" all'ecstasy: sostanze come l'eroina, che creano dipendenza e una visibile condizione di degrado e di perdita della propria libertà individuale, ormai sembrano essere passate di moda all'interno di una società che ricerca il piacere intenso e indifferenziato in tutte le sue dimensioni.

Come diceva Freud (1925) in "La negazione": " L'originario Io-piacere vuole […] introiettare tutto il bene e rigettare da sé tutto il male. Per l'Io ciò che è male, ciò che è estraneo, ciò che si trova al di fuori sono in primo luogo identici".



Note
1 Si intenda qui la definizione che ne dall'autore: "come processo di medicalizzazione dell'oggetto droga dentro percorsi puliti e visibili"
2 Sarno L., Corso Monografico di psicopatologia, 1996-1997, Università di Palermo
3 Con tale espressione si intende sottolineare che ciò sembra essere il rappresentante perverso del principio di piacere freudiano.
4 esperienza di stasi che genera ansia e panico.



Bibliografia

Amendt G., Droghe tecno per culti tecno, in Saunders N. E come ecstasy, Feltrinelli, collana Interzone, Milano, 1995.
Buzzi C., Cavalli A., De Lillo A., Giovani verso il duemila. Quarto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna, 1997.
Calabrese O., Nuovi ritmi, nuovi miti. In Manzoni M., Scalpelli S., Velocità. Tempo sociale tempo umano, Guerini & Associati, Milano, 1988.
Camarlinghi R. (2000), Nuove Droghe, oltre l'allarme, Animazione Sociale, Aprile.
Collin M., Stati di alterazione. La storia della cultura Ecstasy e dell'Acid House, Oscar, Saggi Mondatori, 1998.
Crispi M., Cimò Impalli M., Parlavecchio M., Spinella G., Le nuove tossicodipendenze tra malattie e scelte esistenziali. In Crispi M., Mangia E., Il disagio giovanile contemporaneo. Immagini di un'adolescenza tradita, Ila Palma, Palermo, 2000.
Crispi M. Mangia E., Disagio giovanile e confronto con il rischio: esperienze del limite, condotte ordaliche e ricerca di stati di eccitazione. In Crispi M.,
Mangia E., Il disagio giovanile contemporaneo. Immagini di un'adolescenza tradita, Ila Palma, Palermo, 2000.
Crispi M., Mangia E., La macchina della prevenzione e le tossicodipendenze. In Crispi M., Mangia E., Il disagio giovanile contemporaneo. Immagini di un'adolescenza tradita, Ila Palma, Palermo, 2000.
Crispi M., Mangia E., Il disagio giovanile contemporaneo. Immagini di un'adolescenza tradita. Ila Palma, Palermo, 2000.
Francescato D., Ghirelli G., Fondamenti di psicologia di comunità, Nuova Italia Scientifica, Urbino, 1994.
Freud S. (1925), La Negazione, O.S.F. vol.10, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
Freud S. (1930), Il disagio della civiltà, O.S.F. vol.10, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
Galimberti U., Prefazione a Szasz, Il mito della droga: la persecuzione rituale delle droghe e degli spacciatori, Universale Economica Feltrinelli, Roma, 1991.
Ingrosso M. (1999), Nuove droghe, nuove idee, Animazione Sociale, Novembre, (pp 9-25).
Le Breton D., La passione del rischio, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1995..
Saunders N., E come ecstasy, Feltrinelli, collana Interzone, Milano, 1995.
Sarno L., corso monografico di psicopatologia, 1996/1997.

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La Domanda Sociale di Psicologia e di Benessere

Fonte: http://luigidelia.it/la-psicoterapia/la-domanda-sociale-di-psicologia-e-di-benessere-una-rassegna-ragionata/

Le problematiche scolastiche (bullismo, difficoltà dell’apprendimento, integrazione dell’handicap, educazione affettiva, prevenzione primaria e secondaria ed educazione alla salute, etc.)


La scuola si pone, più che in ogni altra epoca, come un’interfaccia sociale chiave nella educazione alla salute e nella prevenzione di numerose problematiche psicologiche e sociali. I recenti e frequenti fatti di cronaca non fanno altro che confermare oltre ad un disagio diffuso nelle nuove generazioni, l’importanza che l’istituzione scolastica sta assumendo nell’essere luogo elettivo della manifestazione di questo disagio diffuso. Questo perché, in assenza spesso di contesti aggregativi (e formativi) giovanili extrafamiliari, la scuola diventa luogo (quasi unico) di sintesi di ogni contraddizione sociale.

L’assenza di un legislazione nazionale che preveda la presenza organica di psicologi qualificati nella scuola rappresenta un grave ritardo di civiltà. Leggi ferme da molti anni in Parlamento sono il segnale della fatica della politica ad integrare e prevedere ruolo e funzione dello psicologo a sostegno dell’istituzione scolastica e delle sue componenti: allievi, docenti e genitori.


Le problematiche dell’infanzia e adolescenza (con particolare riferimento alle nuove forme di disagio e ai nuovi fenomeni estremi)


I fatti di cronaca portano alla ribalta dell’attenzione pubblica una sorta di cattiva coscienza sociale riguardo l’infanzia e l’adolescenza: da una parte viviamo in un’epoca di conquiste civili e sociali nella quale si riconoscono a bambini e adolescenti la massima soggettualità e cittadinanza giuridica e psicologica e la massima attenzione; dall’altro sembra essersi interrotto, in molti casi, il dialogo e la dialettica formativa tra le generazioni per cui appare altrettanto evidente la confusione progettuale di genitori e istituzioni educative verso il nostro futuro (i nostri figli) comprovato dal vuoto culturale e progettuale, dalla solitudine, dall’impreparazione affettiva ed emotiva in cui versano sempre più bambini e adolescenti.

Nuove forme di disagio compaiono trasversalmente sulla scena sociale per infanzia e adolescenza. A mo’ di esempio: i disturbi dell’attenzione, l’ipercinesi, le nuove dipendenze da internet; i disturbi dell’alimentazione; nuove forme di problematiche comportamentali, fino alle note e recenti forme estreme, solitarie e di gruppo, confinanti con i comportamenti criminosi e antisociali con gravi forme lesive e autolesive.

Le risposte culturali e sociali a quest’ordine di problemi risultano spesso riduzionistiche e collusive. Mancano o sono drammaticamente insufficienti le osservazioni e gli interventi degli psicologi nei vari contesti in cui essi sono chiamati a rispondere: contesti giuridici, familiari, scolastici, sociali.


I disturbi alimentari, anoressia e bulimia


Notoriamente disagi e disturbi della modernità e delle società del primo mondo, i disturbi alimentari, fino a pochi decenni fa di fatto quasi assenti, sono ultimamente in costante aumento e riguardano fasce di età prevalentemente giovanili (anche dell’infanzia) fino all’età adulta.

Richiedono, come per tutti le altre problematiche psicogene, principalmente di prevenzione primaria ed in caso di disturbi già strutturati d’interventi articolati e sistemici di natura psicologica, coinvolgendo le famiglie.

L’anoressia in particolare ha una percentuale di decesso, a seguito delle complicazioni del dimagramento, di circa il 10% e dunque rappresenta un problema sociale molto grave.
[Modificato da fabioroma77 09/03/2011 11:53]
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09/03/2011 12:10

Materiale da elaborare (parte 5)
Ricercando sul web "disagio giovanile"

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Disagio giovanile
Tema svolto sul disagio giovanile visto da un ragazzo: il suo punto di vista e il rapporto con i genitori


Fonte: http://skuola.tiscali.it/temi-saggi-svolti/temi/disagio-giovanile.html

Il disagio giovanile
Sempre più spesso gli adulti, gli stessi adulti che sono i nostri genitori o parenti, amici e, qualche volta, semplici conoscenti, che devono insegnarci o per lo meno dirci come crescere nel modo migliore possibile, ci parlano del disagio giovanile, si affannano per noi, si chiedono, forse, cosa si prova a vivere questo disagio.
E ciò è giusto, conforme al loro ruolo di genitori, di "guide", di, potremmo anche chiamarli, "maestri di vita", visto che indubbiamente ne sanno molto più di noi giovani con la loro esperienza personale.
A volte, però, bisogna dirlo, tutto questo affannarsi per i giovani, pensare alla loro debole psiche, ai brutti incontri che possono fare, alle cattive amicizie che possono crearsi, alla scuola che , inspiegabilmente, va male, e simili, tutto ciò, insomma, stufa.
Ma non è questo il problema, ovviamente. È inutile affermare che il disagio non è causato dall'eccessiva preoccupazione dei genitori nei nostri confronti, ma nella concezione a mio parere sbagliata, di disagio giovanile.

Non è neanche dato, generalmente, dall'indifferenza, volontaria o meno, che alcuni genitori manifestano nei confronti dei propri figli, perché entrambi i genitori lavorano, o perché pensano prevalentemente a sé stessi o per altri motivi, a volte i più disparati.
Ma allora, da cosa è causato questa situazione qualche volta sicuramente seccante? Per fortuna, si pensa, ce lo dice la società. Il problema, però, è proprio questo: per questa società il significato del termine “disagio giovanile” è tutt'altro che univoco: viene infatti usato per "descrivere un'ampia gamma di fenomeni di tipo sociale o individuale che vanno dalle difficoltà fisiologiche e psicologiche di crescita delle attuali generazioni di preadolescenti e adolescenti." Ecco, questa è la versione stereotipata del turbamento di noi giovani.
Ma io sono convinto che non è questa la vera definizione del tanto proclamato disagio. Ovviamente non affermo che tutti la pensino in questo modo; proviamo, però, a svolgere un'ipotetica inchiesta ai genitori, i quali quasi sicuramente risponderebbero:" Secondo me, il disagio giovanile è il bisogno sfrenato di un ragazzo di fare parte di seguire la moda.", oppure:" Per me, il disagio è causato dall'insofferenza a un certo tipo di musica che a un ragazzo non piace e si sente quindi escluso.", e le risposte potrebbero formare una lunga lista. C'è, in fondo, un'idea di base che lega: il concetto stereotipato di "disagio giovanile". Come lo abbiamo ricordato prima, consiste nel credere che un ragazzo è inquieto perché vuole fare parte di un gruppo di coetanei, seguire le loro mode, farsi piacere anche musiche, canzoni, e, perché no, linguaggi, che non gli aggradano ma, trovandosi in difficoltà, si trova male, è, per l'appunto, a disagio. A questo disagio, è poi collegata l'inevitabile conseguenza dell'incomprensione.
Noi giovani siamo degli incompresi? Ma lo siamo realmente o lo siamo diventati a furia di sentirci dire da tutti, genitori, parenti, amici più grandi, insegnanti, educatori, che lo siamo?
Io non lo penso, almeno con le cause che secondo la società moderna generano l'incomprensione.
Secondo me il disagio giovanile non consiste tanto nel bisogno di un giovane di appartenere o inserirsi in un gruppo, o di voler seguire la moda, quanto, a mio avviso, nel cominciare a vedere il mondo con occhi completamente diversi. Senza andare tanto in giro, possiamo partire dalla figura del genitore. Fino ai dieci, massimo dodici anni, il genitore è visto come una specie di persona con un potere illimitato. Tutto ciò che dice è vero. Non ci sogneremmo mai di contraddire ciò che è stato detto. Sto parlando, ovviamente, in generale. Ecco che però, intorno ai tredici anni, il genitore comincia a "rimpicciolirsi", il suo potere non è poi così immenso e il ragazzo cominci a contrastare questo potere. Ecco che nascono i primi litigi; le piccole o grandi incomprensioni. Per rendere più chiaro il concetto riporto alcun frasi dal libro "Demian", di H. Hesse: "Dappertutto pullulava e odorava quel secondo mondo violento, salvo che nelle nostre camere dove c'erano la mamma e il babbo. Era meraviglioso sapere che da noi regnavano pace, ordine e tranquillità, il dovere e la coscienza pulita, il perdono e l'affetto… […]." Questa è, teoricamente, la visione del mondo di un bambino di dieci anni. Ma dopo, il bambino comincia a crescere, diventa ragazzo e comincia a interessarsi di tutto il mondo; non gli basta più il mondo "bello, pulito", gli sta stretto, vuole avere più esperienza. Conseguenza di questa decisione: comincia ad allontanarsi dalla famiglia, non nello stretto senso fisico, ma manifestando una voglia di privacy, d'intimità che prima non avvertiva. Anche i genitori avvertono questo progressivo e crescente distacco e, se da una parte sanno che è naturale che il proprio figlio o la propria figlia cresca, si faccia adulta e tutto quello che ne consegue, dall'altra hanno paura che sia colpa loro, che non li hanno seguiti abbastanza, e allora iniziano a rimediare, stando più attaccati ai figli, i quali, però, si sentono troppo osservati eccetera… Alla fine è una specie di circolo vizioso. Intanto, e comunque, questo giovane cresce e comincia a vedere le persone adulte sotto un altro aspetto. È da questo che, io credo, nasce il disagio. Il disagio di trovarsi all'improvviso in un mondo completamente diverso da quello cui ci si è abituati; Si cominciano a vedere i grandi sotto un'ottica completamente diversa.
Ciò nasce anche dalla comparsa dei propri istinti, degli istinti di tutti, che, volenti o nolenti, dobbiamo in qualche modo assecondare.
Ecco che allora nel ragazzo o nella ragazza nasce il senso del pudore.
All'inizio la cosa è un po' difficile da superare, ma col tempo ci si abitua, ci si abitua a tutto! Si prende atto di ciò e non ci si fanno più tanti problemi.
Ed ecco che cominciamo a prendere delle decisioni importanti e, alla fine, quel disagio interiore, quella specie di sofferenza interiore, non è altro che un flebile ricordo di ciò che è, ormai, acqua passata.
Questo è, secondo me, il disagio giovanile. Come avrete notato è ben diverso dalla versione stereotipata della società, ma io sono convinto che è così.
Si potrebbe affermare, quindi, che il disagio giovanile è il risveglio degli istinti più primitivi che accomunano l'uomo e tutti gli esseri viventi.
È la voglia di sapere, di conoscere, di provare nuove emozioni.
È il desiderio di diventare indipendenti, di diventare, dopo un lungo cammino, adulti.

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Disagio giovanile, new media ed economia globale

Fonte: http://www.vegajournal.org

All’inizio del terzo millennio, con il continuo evolversi degli strumenti tecnologici e dei mezzi di comunicazione, con la perdita di punti di riferimento (quali la famiglia), ormai in gran parte svuotati di significato, che davano senso ed equilibrio allo sviluppo psico-sociale dell’individuo, il genere umano si trova nella scomoda posizione di dover affrontare fenomeni di malaggiustamento giovanile in netta espansione. Questo disorientamento che, spesso, sfocia in comportamenti criminali è, sicuramente, direttamente proporzionale alla crescita delle cause che hanno determinato stati di sofferenza, intaccando sfavorevolmente il vissuto esperienziale di questa nuova generazione. In quest’ottica cercheremo di esplorare, secondo una prospettiva psicopedagogica, alcuni fattori di disagio che possono essere causa della devianza giovanile[1].

Intanto, il termine disagio esprime, dal punto di vista psicologico, una condizione di malessere fisico e psichico determinata da fattori frustranti che impediscono o rallentano il normale svolgimento del processo di socializzazione del soggetto in età evolutiva. Questo status è dato, in generale, dal rapporto che intercorre tra:

1. le prove che il giovane deve affrontare nella sua difficile transizione verso l’età adulta, cioè quei fatti, impegni, tappe, che caratterizzano i compiti evolutivi e che si manifestano in rapporto alle diverse fasi di sviluppo della persona;

2. i condizionamenti derivati dal confronto con la società post-industriale. Quest’ultima, detta anche società complessa, caratterizzata da una vastissima differenziazione strutturale e culturale, dal totale caos e dalla mancanza di punti di riferimento;

3. i fattori-rischio, cioè tutte quelle problematiche (familiari, culturali, socio-economiche, input nocivi dei mass-media), che possono determinare casi in cui il disagio tende a sfociare nel disadattamento.

Il nodo centrale è legato al bisogno di realizzazione dell’individuo; il dare senso alla vita; l’aumentare, sviluppando le proprie attitudini ed esercitando il proprio talento, la stima di sé, consolidando, così, il senso d’identità, di personalità. Due conquiste, queste, fondamentali e vitali per lo sviluppo psicologico del soggetto ma che paradossalmente vengono messe in dubbio dalle inadempienze delle agenzie formative tradizionali che, con la loro azione inefficace, alimentano un clima di sfiducia e di insicurezza nel bambino. Il mondo adulto reagisce con disinteresse ed indifferenza alle richieste di realizzazione dei giovani. Così come i genitori sono spesso sordi alle esigenze affettive del fanciullo che, sentendosi abbandonato, sviluppa un comportamento aggressivo di tipo reattivo-rivendicatorio o un comportamento di indifferenza con conseguente strutturazione di disarmonie personologiche che nei casi gravi possono coincidere col rifiuto di stabilire contatti sociali. La sensazione di essere lasciato da parte, trascurato, rifiutato, viene vissuta dal soggetto con angoscia, che si manifesta con diffuso timore ed incertezza rispetto al futuro. Quindi, l’angoscia non è innata ma è un fenomeno socialmente determinato. Essa è la conseguenza, in generale, della percezione che il soggetto ha di non essere accettato dal gruppo nel quale vive.

Nella famiglia un atteggiamento coerente, che integri l’azione di sollecitazione, di conferme psicologiche all’operato del bambino, atteggiamenti, cioè, che consentano di soddisfare le continue curiosità, correggendo e spiegando gli errori e incrementando, così, la crescita della consapevolezza dei propri mezzi, non può che favorire l’aumento del senso di autostima e le spinte motivazionali del soggetto. Al contrario un atteggiamento iperprotettivo o troppo autoritario dei genitori nei confronti del bambino non può portare che a stati di frustrazioni, infantilismo affettivo, instabilità, ansia ed isolamento, che possono sfociare in atti di aggressività. Il bambino, quindi, percepisce se stesso in rapporto al tipo di reazioni dell’ambiente familiare verso di lui, elaborando un’immagine di sé positiva o negativa. Gli atteggiamenti genitoriali, esercitano indubbie influenze su tale processo, favorendo il riconoscimento nel figlio di stati emotivi, bisogni, impulsi, desideri valutati positivamente o negativamente. Un’azione educativa malsana della famiglia può portare ad una visione negativa della vita, ad una mancanza di prospettiva, ad una chiusura su se stessi.

Questi sentimenti trovano maggiormente spunto di esistere e di insistere in una società dove il valore umano è misurato in base allo sviluppo in termini di crescita economica, di ricchezze materiali, piuttosto che di ricchezze morali quali la solidarietà. In uno scenario di continua competizione, la forza evolutiva del singolo diviene la sua capacità di gareggiare e di misurarsi continuamente con gli altri per occupare, da vincitore, un posto più elevato in un tipo di organizzazione societaria che, escludendo gli incapaci, gerarchizza le posizioni degli stessi inclusi. La conclusione è che non tutti possono lavorare e, perciò, ognuno guarda al vicino non già come al prossimo ma come al rivale, al nemico da allontanare o sopraffare.

La società, così, anziché proteggere e potenziare le possibilità dell’individuo, viene ad opporlo al suo simile e, quindi, ad opprimerlo. Un’esaltazione di modello di uomo, dunque, frantumato e parcellizzato, di cui si vuole immortalare l’unidimensionalità e la cui bontà si misura esclusivamente dall’efficienza delle sue prestazioni.

Questa snaturalizzazione (uomo merce) e questo forzato adattamento ai meccanismi di mercato, nonché l’incertezza della meta lavorativa, sono responsabili della formazione di tante forme psicopatologiche durante l’età adolescenziale, come il sentimento d’inferiorità, l’abbassamento dello slancio vitale, la perdita della libertà e della autonomia decisionale.

Anche l’azione educativa della scuola stenta enormemente ad accreditarsi come credibile. Grazie alla sua offerta formativa anacronistica ed incapace ad educare al dominio dell’incertezza, a fornire, cioè, flessibilità e abilità di integrazione, la Scuola contribuisce ad acuire il disagio giovanile.

Nessuno stupore, allora, di fronte alle proporzioni macroscopiche raggiunte oggi dalla dispersione scolastica, nelle sue variegate versioni di evasione e abbandono di frequenza, ripetenze, bocciature, ecc.

Le radicali e rapide trasformazioni dell’organizzazione produttiva hanno spiazzato completamente la Scuola che è diventata una fabbrica delle illusioni, non riuscendo a dotare il giovane di quei mezzi per affrontare il lungo e difficile cammino nella giungla della globalizzazione.

Nell’era dell’economia globale, il disagio giovanile è esasperato a causa di un processo di socializzazione sempre di più defamiliarizzato e descolarizzato, connotato com’è dalla invadenza e dalla prevaricazione dei mass-media. Gli errori di cui sono colpevoli famiglia e scuola con la loro inefficacia educativa, se da un lato non assolvono la televisione dal peccato di condizionare negativamente i giovani utenti, dall’altro ne hanno accresciuto l’importanza.

E’ dimostrato come l’eccessiva esposizione al video, a prescindere dagli aspetti contenutistici dei messaggi, costituisce già di per sé una condizione sufficientemente nociva per la formazione della personalità. Infatti, non possiamo non rimarcare che l’esasperata partecipazione allo spettacolo televisivo attenti continuamente alla vita fisica e psichica mietendo sempre più vittime, specialmente tra i giovani utenti il cui comportamento affettivo-emotivo viene danneggiato in maniera, talvolta, irreversibile.

Il soggetto che si nutre smodatamente di immagini televisive manifesta, sovente, modalità reattive permeate da introversione, asocialità, da una povertà di interessi e da un disimpegno verso le varie attività. L’influenza della tv diventa catastrofica, poi, se si tiene conto delle forti dosi di violenza somministrate giornalmente dai vari programmi. Il soggetto, metabolizzando la violenza assorbita attraverso il piccolo schermo, rimane condizionato nei suoi rapporti intra ed eterofamiliari con atteggiamenti molto spesso aggressivi, ansiosi, timorosi, o d’indifferenza verso la sofferenza altrui[2]. Assistiamo, così, ad una sovraeccitazione dell’intero fronte sensoriale che condiziona sfavorevolmente il comportamento apprenditivo del bambino, per il quale è facile lo scambio dell’immaginario con il reale.

Alla prevaricazione che il mezzo televisivo attua sulla formazione della personalità del soggetto in età evolutiva sono da sommare anche i condizionamenti negativi determinati, a partire dagli anni ’80, dal rapporto che s’è venuto ad instaurare tra il sistema dell’informazione con le connesse tecnologie audiovisive, informatiche e telematiche. I nuovi media, con la loro diffusività e pervasività di informazioni provocando un’estensione dello spazio ed una polverizzazione del tempo, accompagnate dalla trasformazione sensoriale da un sistema orale-uditivo, ad uno prevalentemente visivo e cinestico, hanno intaccato non solamente i comportamenti individuali, ma anche ogni settore della vita comunitaria (famiglia, scuola, lavoro, tempo libero) trasformando il “come”, il “dove” e il “che cosa fare”. Quindi, con il passaggio dall’era post-industriale all’era della comunicazione, l’informazione assume la configurazione di vera e propria risorsa su cui si possono costruire i nuovi equilibri sociali, ma può comportare danni collaterali, come la diffusione di una monocultura che appiattisce le differenze e le caratteristiche proprie di ogni identità personale e di gruppo. Un pensiero, cioè, unidirezionale, che tende a comprimere gli spazi della creatività, ad uniformare, omogeneizzare, a prescrivere atteggiamenti e condotte ad un uomo sempre più eterodiretto, che pensa ed opera sotto dettatura, dalla personalità estremamente fragile per i deboli legami che mantiene con il proprio passato.

Ecco perché è di vitale importanza la predisposizione di programmi di educazione alla memoria storica che consente di andare alla riscoperta delle origini non per vuoti sentimentalismi o puro accademismo ma per trarre da essi giusti ed utili insegnamenti. Nelle radici, difatti, è custodita la speranza del futuro e soltanto rigenerando l’intreccio di storia, cultura ed umanità, su cui poggia il passato, è possibile riguardare il presente e preparare un migliore avvenire.

Occorre riscoprire i valori del senso di appartenenza, oggi indebolito per altro da un ambiente urbano che assume i caratteri della repressione, dell’aggressività e del non-senso. I giovani di oggi vivono un disagio da città che genera forme di solitudine rendendoli stranieri in patria. Le loro esperienze sono impoverite e segregate da uno spazio fisico che, lungi dal configurarsi quale campo di contatto affettivo, è privo di una qualunque forza di attrazione emotiva. Ecco perché i giovani spesso si rinchiudono in un mondo artificiale, virtuale, ricorrendo alla videosocializzazione quale rimedio alla difficoltà di rapporti relazionali. Un tipo di socializzazione, quest’ultima, che, fondamentalmente, è il risultato dell’indebolimento delle agenzie educative tradizionali il cui approccio con i new media si è mosso lungo i sentieri di una continua fluttuazione fra la disponibilità al nuovo e la difesa della tradizione.

Non dobbiamo scandalizzarci, allora, se i media, grazie a talune loro peculiarità (flessibilità nella scelta delle fonti di informazione, interattività e possibilità di collegamenti on line), si inseriscono all’interno della tendenza dei giovani a prendere le distanze dalle agenzie formative classiche, occupando, nel budget-time degli stessi soggetti, spazi sempre maggiori. Ma l’esasperata esposizione al profluvio di messaggi fa sì che nei soggetti in età evolutiva la formazione del sé sia frutto di un assemblaggio selvaggio di informazioni e modelli di comportamento disomogenei e contraddittori che rispondono a logiche utilitaristiche o ad esigenze di mode. Tutto ciò a danno dell’identità dell’individuo che risulta altamente indeterminata, scarsamente orientata a conseguire mete sociali, incerta nel perseguire obiettivi di lungo periodo, poco creativa in quanto obbligata a seguire processi d'azione meccanici.

Da questa breve trattazione, affiora chiaramente come i motivi che pongono la condizione giovanile ad alto rischio siano non solamente numerosi ma anche connessi ed interdipendenti gli uni con gli altri. Pur presentandosi complessa ed articolata, tuttavia ritengo che la problematica del disagio giovanile sia fondamentalmente originata dall’eclissi educativa che, lentamente, ma inesorabilmente, sta attraversando i contesti familiari, formativi, produttivi ed informativi della nostra società, i quali, da una parte, hanno abdicato alle proprie prerogative istituzionali e, dall’altra, hanno sviluppato, stravolgendola, una visione riduttiva e strumentale dell’educazione.

In quest’ottica le scienze pedagogiche devono contribuire a formulare un’offerta educativa che deve, necessariamente, essere diversificata; cioè tenere conto delle reali situazioni culturali, sociali, politiche, economiche delle aree di intervento; inoltre deve essere regolata a seconda dei bisogni e delle motivazioni che emergono nelle singole persone. L’idoneità di un piano formativo non può prescindere dall’armonica combinazione di un’intelligente capacità di decodificazione della domanda di una società sempre più dinamica ed evoluta, con una fedele ed integra ricezione di ciò che i giovani sentono, pensano, esprimono.

Le strutture educative, aduse come sono a condotte moralistiche o diagnostiche, all’emissione di giudizi e all’adozione di comportamenti freddi o direttivi, devono, pena il fallimento della loro ragione sociale, saper avviare, mantenere o ripristinare un rapporto di empatia con il mondo giovanile. Solo ristabilendo quel processo relazionale di comunicazione tra le parti potremo nutrire la speranza di vincere la sfida con il disagio giovanile, anticamera di condotte antisociali e criminali.


[1] Meriterebbe un approfondito chiarimento cosa intendiamo per “devianza”, termine che assume connotazioni diverse a seconda della prospettiva teorica che tende a definirla, a rintracciarne, cioè, le linee di demarcazione che consentono di distinguere “normalità” e “devianza” e, queste due, da “diversità” e “creatività”, per ovvi motivi di spazio rimanderemo ad altra sede tale trattazione.

[2] A tal proposito, e come esempio emblematico, si può fare riferimento al sempre maggiore verificarsi di episodi di un fenomeno poco edificante denominato “effetto bystander” (effetto spettatore), per cui in particolari situazioni come scippi, ragazze aggredite in pieno giorno o persone che, per cause naturali o meno, restano privi di conoscenza, con l’aumentare del numero degli astanti è sempre meno probabile che i presenti soccorrono le vittime.

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Emidio Tribulato - IL DISAGIO GIOVANILE


Fonte: http://www.cslogos.it
Non è facile definire il disagio giovanile.

Non è una malattia perché il ventaglio di manifestazioni con cui si evidenzia è troppo ampio e variegato

Non ha le caratteristiche di una specifica patologia perché non ha una causa univoca ma è il frutto di numerose concause.

Non è soltanto un problema sociale, anche se alla sua nascita ed alla sua evoluzione concorrono molte cause sociali.

Si chiama disagio giovanile in quanto le sue manifestazioni più eclatanti si evidenziano nell’età giovanile, ma spesso è già presente, anche se misconosciuto, nell’infanzia.

Per tali motivi possiamo e dobbiamo necessariamente inserirlo nel contesto di un’alterata formazione ed evoluzione del minore. Le cause vanno quindi ricercate in una non corretta gestione dell’attività educativa sia nell’età giovanile che in quella infantile.

Poiché questa attività è affidata non solo ai genitori ma anche ad altre agenzie, la responsabilità del disagio giovanile è da ricercarsi non solo nella famiglia o nella scuola ma anche nell’ambiente educativo nel suo complesso. Dice Charmet: “ Innanzi tutto ci è sembrato certo che la comprensione di alcuni comportamenti adolescenziali di massa e l’interpretazione del significato affettivo di taluni comportamenti devianti individuali sia possibile soltanto a condizione che non ci si limiti a correlarli alle relazioni familiari attuali e precedenti, ma si consideri l’adolescente parte integrante di un ecosistema relazionale che vede le principali agenzie di socializzazione – famiglia, scuola, comunità sociale e gruppo di pari età - quali fattori decisivi di benessere (o malessere) del soggetto adolescente.”

Le manifestazioni del disagio giovanile assumono spesso un aspetto molto variegato. Si possono avere solo alcuni o molti dei sintomi sotto elencati.

LE MANIFESTAZIONI DEL DISAGIO GIOVANILE

• Chiusura del giovane in se stesso o nel branco.

• Profitto scolastico scadente senza che vi sia un ritardo intellettivo od altre cause evidenti.

• Condotte asociali, non dovute alla presenza di un contesto sociale degradato;

• Fenomeni autodistruttivi, mediante bravate pericolosissime.

• Frequenti fenomeni di sballo, mediante l’abuso di alcool o l’uso di droghe.

• Una vita sessuale ed affettiva senza una reale progettualità e senza alcuna responsabilità sia verso gli altri che verso se stessi .

• Uso di sport estremi.

• Disturbi del comportamento alimentare con anoressia o bulimia.

• Disturbi nell’identità e nel ruolo sessuale senza cause organiche.

• Aumento notevole della durata degli studi universitari. Situazione di “fuori corso” per un numero considerevole di anni.

• Comportamenti abnormi: fughe, randagismo, sciatteria, aggressività senza alcuna evidente motivazione.

• Scarsa progettualità anche solo di tipo lavorativo.

• Scarso impegno verso la famiglia ed i familiari.

• Diminuzione delle ore di sonno o perdita del sonno ristoratore.

• Minore capacità d’attenzione e concentrazione.

• Perdita d’interesse per gli altri esseri viventi.

• Euforia alternata alla depressione.

• Sensi di colpa o sentimenti d’indifferenza verso gli altri e verso i propri comportamenti.




Tratto dal libro di E. Tribulato"L'educazione negata" Edizioni E.D.A.S.
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Il disagio giovanile interpretato. Tra diagnosi e terapia

Seminario per insegnanti:
ciclo di conferenze/laboratori sul disagio


Fonte: http://www.irre.toscana.it/disagio/

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Transcrime

Disagio giovanile


Fonte: http://www.questotrentino.it/2004/15/Disagio_giovanile.htm

Le strategie per prevenire un fenomeno allarmante.
n° 15 del
18 settembre 2004

Baby gangs, abuso di droghe e di alcolici, anoressia, bulimia, suicidio e, più recentemente, sette sataniche: il disagio giovanile è uno degli argomenti più scottanti che i mass media riportano quasi quotidianamente all’attenzione del pubblico.

Quali le cause? Difficile stabilirlo. Se si mira a trovare un capro espiatorio su cui agire, una ricetta che possa andare bene per tutti, si corre il rischio di banalizzare il fenomeno, di non considerare contesti e persone. Le cause sono molte e forse nessuna, presa in maniera isolata, è in grado di spiegare cosa si nasconda dietro comportamenti autodistruttivi, aggressivi e poco rispettosi per se stessi e per gli altri. E’ per questo che in anni recenti si è affermato il concetto di prevenzione psico-sociale.

Questo approccio prende spunto dalla considerazione che l’identità di ciascuno di noi non si forma semplicemente rielaborando informazioni ed esperienze sociali, ma si costruisce nell’interazione quotidiana con soggetti e contesti.

Nel concetto di prevenzione psico-sociale ognuno di noi è protagonista della propria esistenza, soggetto in grado di prevenire i rischi, ma anche di attuare risorse e potenzialità inaspettate.

Come si realizza e a chi si rivolge la prevenzione psico-sociale? In molti progetti internazionali gli interventi si sono concentrati su contesti svantaggiati dal punto di vista economico, sociale e culturale. Quartieri degradati come i tipici slums americani, ritratti da una parte della cinematografia, con elementi tra il mito e la realtà, possono darcene un’idea. Se pensiamo però che il disagio possa nascere solo dove c’è povertà, disinformazione, emarginazione, siamo sulla strada sbagliata. Anche in realtà apparentemente meno problematiche e benestanti esistono e si manifestano forme di disagio giovanile.

L’esperienza italiana in materia di prevenzione psico-sociale è ancora limitata, mentre all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, questo approccio è ormai consolidato. Molti progetti internazionali come l’Abecedarian Project o il Nurse Family Partnership si svolgono tra il periodo pre-natale e i primi anni di vita, perché questi sono tra i periodi più importanti per determinare un ambiente di crescita e sviluppo sereno e stimolante. I programmi in questa fase propongono interventi sul bambino e sulla famiglia tramite corsi di informazione e formazione per i genitori e centri specializzati, disponibili 24 ore su 24, per consulenze mediche e psicologiche.

Altri programmi come il Fast Track Project si focalizzano su un periodo molto lungo, prevedendo interventi durante l’infanzia, ma anche in età pre-adolescenziale ed adolescenziale, lavorando sull’ambito familiare, scolastico, sulle relazioni amicali e sulle risorse della comunità. Le attività prevedono lavori in gruppo, incontri tra famiglia, scuola e servizi, potenziamento delle capacità di apprendimento dei giovani, sviluppo di abilità relazionali e sociali.

Un’attività utilizzata soprattutto nelle fasce di età tra gli 11 e i 18 anni è la Peer Education. Essa consiste letteralmente nell’educazione da parte dei pari, cioè amici e conoscenti, riconoscendo l’importanza dei gruppi extra-familiari ed extra-scolastici nella formazione del bambino.

L’educatore di strada è un’altra delle attività più utilizzate nei recenti interventi su bambini/giovani devianti e disagiati. Questo tipo di intervento permette di entrare a diretto contatto con il mondo di appartenenza del giovane, comprendendone schemi, meccanismi e facilitando il contatto dei ragazzi con adulti dalla valenza positiva. In tutti questi interventi l’obiettivo principale è quello di cercare di sviluppare e promuovere le risorse di ogni individuo e del suo contesto, permettendogli di provare concretamente che, in qualsiasi condizione, un’alternativa esiste ed è possibile.

I risultati dei progetti internazionali, nonostante le difficoltà e i casi particolarmente difficili, hanno dato risultati positivi. Una consistente parte dei bambini e dei ragazzi che vi hanno preso parte hanno migliorato le loro capacità di relazionarsi con la famiglia e con il mondo esterno, hanno trasformato il loro stile di vita ed appreso una progettualità del futuro e per il futuro.

Ciò che appare fondamentale è la creazione di una rete in cui "giovane e dintorni" possano trovare assistenza, consulenza, sostegno e stimolo. La creazione di una comunità consapevole del problema, consapevole dei propri limiti e risorse, al di là dei luoghi comuni, è sicuramente uno degli aspetti più importanti per la prevenzione del disagio giovanile

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I nuovi modi del disagio giovanile. Ricerche mirate sul disagio "sommerso" dei giovani ad Udine

Link alla struttura di un libro con in più la possibilità di vedere la preview di alcune pagine

Fonte: http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_Libro.asp?CodiceLibro=1563.29
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Superamento del Disagio Giovanile nella Scuola dell’Alfabetizzazione Emotiva e della Creatività

Fonte: http://www.psicolab.net/2009/

Il panorama giovanile della società odierna è svuotato dal di dentro.
Nessun sogno, nessuna speranza, nessuna attesa sono in grado di colmare questo vuoto.
La visione del futuro si presenta minacciosa, oscura, angosciante; di conseguenza i giovani preferiscono vivere in un apparente eterno presente che si concretizza nella cultura totalizzante del consumo quotidiano di oggetti e persone.
In una società edonistica e nevrotica, come quella attuale, si intrecciano e si incrociano i loro vissuti esperienziali, si appagano i loro desideri di avere tutto e subito, dell’apparire finalizzato ad allontanare da loro l’ansia di essere obliati dallo sguardo vacuo dell’altro.
Oltre a quello consumistico, non vi sono altri valori ai quali i giovani di oggi trovano un significato aggrapparsi; di qui un senso di disorientamento o, come sostiene lo studioso Umberto Galimberti, di un disagio che ha le sue radici nella morte della cultura occidentale e nell’avvento di un atteggiamento nichilistico.
In passato i vecchi valori del matrimonio, della religione, della casa, della famiglia fungevano da saldo legame della persona col suo presente in vista di un miglioramento futuro.
L’unione di progetti di vita personali e del patrimonio culturale trasmesso attraverso il processo di socializzazione rendevano sensata e fiduciosa l’attesa del futuro.
La drastica rottura con il proprio passato, se per alcuni versi ha determinato un passo in avanti, grazie al superamento di posizioni anacronistiche ed intolleranti nei confronti di culture e religioni diverse da quelle del proprio ambiente di vita, non è stata compensata da altri valori fuorché dal benessere materiale ed economico, dalla mercificazione dell’uomo e dei rapporti sociali, dalla mancanza di considerazione nei riguardi dei giovani che, vivendo immersi in un contesto sociale che svaluta completamente le loro capacità e potenzialità, proprio in quanto non viene attribuito più alcun ruolo costruttivo e migliorativo al futuro, vivono per l’oggi, l’attimo che fugge.
La loro idea di futuro si sposa con quella di precarietà, di angoscia, di pericolo imminente di perdere ciò che si ha qui ed ora, di enigma esistenziale.
La scuola testimonia chiaramente la visione scettica del futuro che non lascia valorizzare adeguatamente le potenzialità e le energie emotive e psichiche dei ragazzi.
Divenuta da tempo la dimora di un pessimismo pedagogico latente, impone ai suoi allievi di vivere nella condizione perenne di parcheggiati in uno stato cronicizzato di inerzia e demotivazione per attività e programmi scolastici e di riottosità nell’instaurare relazioni costruttive e genuine con insegnanti e compagni di scuola.
Secondo Galimberti non si viene più a determinare nell’adolescente « quel passaggio naturale dalla libido narcisistica (che investe sull’amore di sé) alla libido oggettuale che investe sugli altri e sul mondo. Senza questo passaggio si corre il rischio di indurre gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche, impostando un’educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che ci si salva da soli, con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali»[1].
In questo continuo e parossistico vivere l’attimo e fuggire il futuro, i giovani non hanno il tempo di ripiegare su se stessi, di indagare nel profondo di sé, di interrogarsi su quello che veramente vorrebbero essere o sono indotti ad essere.
E’ il conosci te stesso di socratica memoria l’obiettivo a cui attualmente la scuola deve mirare, focalizzando la sua programmazione prioritariamente sull’alfabetizzazione emotiva.
Ciò richiede da parte degli insegnanti capacità di leggere le emozioni dei loro giovani allievi, riuscendo ad incanalarle in interessi e progetti da questi ultimi manifestati nel corso del dialogo pedagogico, ove l’allievo si senta pienamente riconosciuto per quello che realmente è nei suoi limiti e possibilità..
Solo dopo il riconoscimento da parte dell’altro, può sorgere negli adolescenti l’autoaccettazione e la fiducia in sé che portano alla costruzione della propria identità.
La consapevolezza di essere riconosciuti ed accettati è come un seme che rende fertile il terreno della buona volontà ad impegnarsi e ad apprendere i contenuti disciplinari.
«Se non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva, l’incuria dell’emotività è il massimo rischio che ogni studente, andando a scuola, corre. E non è un rischio da poco perché se è vero che la scuola è l’esperienza più alta in cui si offrono modelli di secoli di cultura, se questi modelli restano contenuti della ente, senza diventare spunti formativi del cuore, il cuore comincerà a vagare senza orizzonte, in quel nulla inquieto e depresso che nemmeno il baccano della musica giovanile riesce a mascherare…Il sapere trasmesso a scuola non deve comprimere questa forza, ma porsi al suo servizio per consentirle un’espressione più articolata in termini di scenari, progetti, investimenti, interessi»[2].
Bisogna allora dare spazio a tutti quelle componenti pedagogiche finora trascurate dalla didattica, quali per esempio la creatività che richiede l’esplicarsi di un pensiero flessibile, pertinente, fluido e flessibile allo stesso tempo.
Secondo la psicologa A. Oliverio Ferraris, l’apprendimento di un pensiero creativo può tuttavia emergere solo dall’interazione di tre ingredienti:
« L’individuo con le sue potenzialità e le sue abilità;
Il bagaglio di conoscenze, di cultura e di pratica che l’individuo si è fatto negli anni formativi, in un clima in cui vi era spazio per l’iniziativa, l’esploratività, la sperimentazione, l’approfondimento, la riflessione;
L’ambiente, ossia quell’insieme di persone, istituzioni educative e culturali che forniscono stimoli, opportunità, apprendimenti, riconoscimenti che sono alla base di una società intellettualmente vivace, aperta alle novità»[3].
Si comprende allora come il lavoro di pedagogisti ed insegnanti si presenti arduo, lungo e coraggioso dal momento che l’ambiente attuale non offre alcuno stimolo al pensiero libero e genuino perché il pensiero giovanile è vittima precoce di un deturpamento operato dalla logica utilitaristica e consumistica.
Per lo studioso D. De Masi, solo lo sviluppo creativo può garantire il miglioramento del singolo e dunque di un intero paese, poiché «nessun uomo è un’isola: siamo un sistema integrato in cui ogni parte incide positivamente o negativamente sul tutto»[4].
Secondo il medesimo, la scuola deve essere il luogo dove i giovani possano fare esperienza di ciò che egli definisce “ozio creativo” e che consiste «nella capacità di non separare più il lavoro dallo studio e dal gioco, come si faceva purtroppo nella società industriale (della quale abbiamo purtroppo estremizzato l’adozione della logica del profitto), ma di unire queste tre cose, ovvero di riuscire a lavorare per produrre ricchezza e, contemporaneamente, studiare per produrre conoscenza e giocare per produrre allegria», in una programmazione didattica che veda la fusione di dimensione emotiva e dimensione razionale.
Per far sì che la creatività costituisca un elemento costruttivo nella realizzazione di progetti ed obiettivi, occorre che all’apprendimento della stessa si affianchi quello di saggezza ed equilibrio consistente «nel dare il giusto valore e un giusto ordine alle cose, considerando importanti le cose veramente importanti e secondarie le cose realmente secondarie….»[5].
Si tratta di rovesciare lo stile di vita moderno fatto di frenesia routinaria e ingabbiato nella rigidità sequenziale del dovere lavorativo.
«In molte famiglie moderne, marito e moglie lavorano entrambi ed hanno lo stesso ritmo di vita, illudendosi che la carriera sia la cosa più importante al punto da trascurare le persone (il coniuge, i figli, gli amici) dalle quali potrebbero trarre maggiore felicità. Ma quello del lavoro e della carriera, collocati al primo posto nella gerarchia dell’esistenza, è un falso valore, una mancanza di saggezza tipica della società industriale e consumistica, completamente votata al denaro, al successo, alla competitività. Esso dovrà essere sostituito il più rapidamente possibile da una società post industriale finalmente strutturata sui valori dell’introspezione, dell’amicizia, dell’amore, del gioco, della bellezza, della solidarietà e della creatività»[6].




[Modificato da fabioroma77 09/03/2011 14:56]
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09/03/2011 14:30

Secondo me è inutile chiamare giovani professionisti per le interviste. Se dobbiamo intervistare degli esperti di un settore abbiamo bisogno che siano nomi di richiamo per incrementare la vendibilità del prodotto. Se ad esempio vogliamo intervistare uno psicologo, andiamo a vedere chi insegna psicologia alla Sapienza ecc. e mandiamogli una mail (sicuramente ne avranno una a disposizione degli studenti), qualcuno risponderà.
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Materiale da elaborare (parte 6)
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I nuovi volti del disagio adolescenziale e giovanile
pubblicato il: 26/08/2010 18:19

Fonte: http://www.salus.it

La responsabilità della storia, e, dunque, del futuro è radicata nella nostra presente idiozia. La storia rimane una catena di tragedie, che non si spezza mai. Ma noi siamo capaci di dimenticarcene. Questa dimenticanza genera una specie di felicità. E, invece, è la causa delle nostre future tragedie. OKAZAKI KENJIRO, TSUDA YOSHINORI
Il disagio adolescenziale ed il malessere diffuso tra i giovani, a livelli ormai preoccupanti, impongono a tutti, in primo luogo alle istituzioni, il dovere di attuare concreti provvedimenti per cercare di ridurne e, se possibile, di eliminarne le cause. L'obiettivo che dobbiamo prefiggerci è di favorire la formazione di un giovane, che da adulto troverà in se' la forza per non essere sconfitto dalla vita, per non fondare la ragione del proprio vivere sull'avere ma sull'essere se stesso, per non cercare fuori di sé, nella droga e nel rifiuto della vita, la risoluzione dei propri problemi.

Da simili premesse consegue che dobbiamo rivedere, con modestia e con l'uso di tutta la ragione e di tutta la sensibilità di cui siamo capaci, anche l'insieme dei servizi sociali e sanitari che abbiamo finora creato. E' un problema sociale e culturale prima ancora d’avere anche risvolti economici.

Nel nostro tempo, un'ottica clinica che consideri i disturbi comportamentali degli adolescenti in modo dinamico ed integrato con i fattori sociali ed ambientali è sempre più necessaria. Le patologie psichiche non sono solo le fredde astrazioni descritte nei trattati, ma un complesso insieme sintomatologico che risulta condizionato dalle grandi trasformazioni sociali e culturali degli ultimi decenni. Nel mondo adolescenziale e giovanile, più sensibile ed esposto ai cambiamenti, possono essere evidenziate nuove espressioni di disagio mentale e comportamentale, che, per la loro diffusione, assumono il ruolo di patologie sociali. Spesso risulta incerto il confine tra tali forme di disagio estremo con malattie mentali classiche, quali depressione e psicosi. Un numero crescente d’adolescenti e di giovani risultano alla ricerca esasperata di stimoli intensi, di sensazioni forti (sensation seeking). Molti di loro presentano una sorta d’insensibilità alle gratificazioni della quotidianità. La soglia di gratificazione sempre più alta, la scarsa capacità di provare piacere rende molti giovani anedonici, abulici, annoiati, incapaci, per di più, di saper dilazionare la fruizione degli oggetti desiderati. Solo le attività 'a rischio', straordinarie e pericolose, risultano degne d’attenzione. Tra questi giovani non è raro incontrare soggetti che esibiscono comportamenti molto rischiosi per la vita, disturbi più o meno gravi del rapporto con la realtà, isolamento con atteggiamenti antisociali e disturbi del controllo degli impulsi. Talora si evidenziano forti difficoltà a comunicare, a stabilire relazioni affettive, ad esprimere o a comprendere stati emotivi. Si vive in una sorta di deserto emozionale, con elementi residuali di comunicazione interpersonale ridotti all'espressione d’aggressività o sottomissione. In alcuni casi si registra una sostanziale incapacità ad assumersi qualsiasi responsabilità rispetto alle conseguenze delle proprie azioni, in una sorta di deserto etico, riempito da un’assoluta dipendenza dal denaro, unica misura di successo, nonché dalla cura della propria forma fisica, fine a se stessa. Il labile contatto con la realtà, può sfiorare, frequentemente, i disturbi psicopatologici più gravi della serie psicotica. Le fughe in pseudo-realtà mistiche ed in organizzazioni, sette e culti magico-misterici inducono spesso atteggiamenti regressivi di grave dipendenza psicologica, con comportamenti aberranti, autolesivi, autodistruttivi e, solitamente, incongrui rispetto al contesto socioculturale e lavorativo. Questi adolescenti senza storia e senza futuro si riducono a vivere alla giornata in un tempo soggettivo senza progettualità e senza nessuna evoluzione verso una completa maturazione sociale. La propensione all'aggressività, l'incapacità di gestire i propri impulsi, il vuoto esistenziale, l'incapacità a stabilire e mantenere relazioni affettive stabili, i disturbi ideativi e di rapporto con la realtà, presenti in molti giovani, risultano spesso indistinguibili dai segni e dai sintomi clinici propri o prodromici allo sviluppo di gravi psicopatologie, dai disturbi di personalità alle psicosi schizofreniche, dai disturbi d'ansia alle più gravi distimie. D'altro canto, il tessuto socio-relazionale ed affettivo, in cui stanno crescendo i nostri giovani, spesso molto problematico, può probabilmente favorire lo sviluppo o la slatentizzazione di forme di psicopatologia altrimenti subcliniche. Da ciò, la necessità di un forte impegno preventivo nei confronti del singolo soggetto, ma anche nei confronti delle famiglie e del contesto micro-sociale e macro-sociale, al fine di scongiurare il formarsi di un 'humus' favorevole all'insorgere di forme di disagio giovanile sempre più problematiche ed ingestibili sul piano sociale. (1-2)

Fattori attuali del disagio psicologico dell'adolescente

Il compito psico-sociale, specifico della fase evolutiva adolescenziale, è la costruzione di un'identità separata, con la capacità di assumere e riprodurre dei ruoli autonomi. (3) La costruzione di un'identità avviene in maniera relativamente semplice, naturale e senza problemi, in una struttura sociale statica o in ogni modo portatrice di modelli e valori ben definiti. In tal caso, la rivoluzione nella percezione di sé, legata alle rapide e profonde trasformazioni della pubertà e dell'adolescenza, è arginato ed instradato in modelli comportamentali ed etici, che delimitano le alternative. Senza dubbio, uno dei fattori che regolano la fluidità o la difficoltà patologica nell'affrontare questa fase evolutiva di passaggio e spesso di crisi, coincide con la disponibilità soggettiva ed oggettiva ad intraprendere delle azioni e a vivere delle esperienze in modo autonomo e separato, rispetto all'universo genitoriale. (4) In altre parole esiste, a causa d'esperienze anticipate d’assunzioni di ruolo oppure, viceversa, a causa della non accettazione da parte dei genitori della possibilità di separazione del figlio, l'eventualità che la costruzione di un'identità autonoma è anticipata od a lungo inibita e resa problematica. Questo vuol dire che esperienze precoci d’inserimento nel lavoro e nel mondo degli adulti possono accelerare l'evoluzione dell'adolescente, ove esperienze di procrastinazione estrema di tale ingresso nella realtà adulta (come nel caso degli studenti universitari o delle lunghissime ricerche di una prima occupazione) possono prorogare, anche fino alla soglia dei trent'anni, uno status ed un vissuto da adolescente.

La strutturazione del lavoro contemporanea, con la crescente richiesta di specializzazione e con la concomitante crisi nell'offerta d'impiego per i giovani, favorisce una dilatazione smisurata del "tempo" dell'adolescenza. Le problematiche della transizione adolescenziale nel figlio, legate all'elaborazione della perdita della sicurezza ed all'acquisizione di limiti di ruolo, sono per alcuni versi speculari, ma anche parallele a quelle che sono al centro della transizione e della crisi della mezza età dei genitori. (5) E' quest'ultima, una fase d’abbandono e trasformazione di ruoli, di primo bilancio e confronto col proprio progetto o sogno personale, di presa di coscienza dei limiti della propria vita. (6-7) Queste due fasi, spesso, coincidono nel tempo, fra genitori e figli, il che rende più arduo per entrambi il compito evolutivo. Infatti, mentre il genitore tende a patire per la perdita del figlio, che si rende autonomo ed esce gradualmente dalla sua vita, il figlio deve affrontare l'ulteriore ostacolo di un genitore che non è più forte e orientato al futuro, ma oppositivo, resistente e timoroso di fronte ad ogni cambiamento. (8-9) In ambito clinico, il problema dell'autonomia dalle figure genitoriali, autonomia spesso negata, talora rifiutata, a volte agita come ribellione, risulta spesso centrale. La dipendenza psicologica nei confronti delle figure genitoriali e le ansie edipiche, ad essa collegate, sembrano influenzare l'evoluzione identitaria e lo sviluppo di sintomi clinici. Il vissuto di dipendenza può variare, infatti, dalla completa impotenza, conseguenza di una relazione patologica simbiotica, alle condotte oppositive di ribellione sistematica, altrettanto patologica. In sintesi, l'adolescenza contemporanea sembrerebbe caratterizzata da un progressivo dilatarsi della sua durata e da una crescente difficoltà ad assumere un'identità autonoma ed indipendente da quella genitoriale.

Il ruolo di divorzio e separazione genitoriale

Non infrequentemente la delicata fase di sviluppo adolescenziale trova nel comportamento genitoriale una delle più forti cause di sofferenza. In questo periodo di profonda crisi etico-sociale dei modelli di comportamento familiare, spesso gli adulti sono troppo affannati dalla propria infelicità, per potersi occupare di quella dei ragazzi. Il non offrire loro una stabilità e continuità affettiva può essere la premessa a gravi disturbi. Talora questi genitori, nella loro disperata lotta per la separazione, si contendono i figli adolescenti, come oggetto di ricatto e strumento di punizione reciproca. Questi ragazzi vivono gli anni decisivi per la loro crescita in un clima di grande precarietà affettiva, smembrati e divisi tra genitori in guerra, talora usati come merce di scambio e privati del loro fondamentale diritto ad un'autentica e profonda relazione affettiva, con entrambi le figure genitoriali. I ragazzi soffrono, ma non si vergognano, per un genitore morto. Si vergognano e rifiutano un padre o una madre che sanno o vogliono assumersi il loro ruolo genitoriale, sino in fondo. I figli non potranno mai divorziare dai loro genitori, che resteranno tali, anche se cambia il loro rapporto e, soprattutto, va ricordato che i genitori da cui nascere non si possono scegliere. Di solito i figli di una coppia in crisi tendono ad introiettare la colpa, sentendosi, a torto, la causa della sofferenza loro e di quella dei loro genitori. Soffrono perché credono d'essere stati loro a provocarla, intrappolati, fin dalla nascita, in una specie di fatalità.

Le attese degli adolescenti e le risposte della società

Spesso, i giovani, oggigiorno, non hanno reale stima da parte degli adulti. Si preferisce considerarli negativamente, come meccanismo di difesa psicologica, per non sentire il peso delle tante denuncie che gli adolescenti, spesso giustamente, lanciano sugli adulti. Il senso di colpa degli adulti, che deriva dall'aver contraddetto nei fatti i valori, pur formalmente condivisi con le giovani generazioni, è spesso contrastato svilendo, sminuendo ed emarginando i giovani, enfatizzando i loro comportamenti devianti. L'unico legame profondo che, talora, unisce il mondo degli adulti ed il mondo giovanile è costituito dalla paura genitoriale di perdere il figlio, precipitato nel vortice della droga, vissuta come mezzo per risolvere le difficoltà esistenziali del crescere. Gli stessi adulti, senza riconoscerlo, sanno d'essere "drogati", perché usano mezzi di compensazione, quali sesso, potere e benessere, per superare una condizione di vita, spesso fonte di frustrazioni continue. I comportamenti disturbanti dell'adolescente, secondo molti benpensanti, vanno puniti con il carcere o il manicomio, qualunque cosa pur di non sentirsi chiamati in causa e di non essere disturbati nel nostro benessere.

La televisione e l'adolescente

I mass media e la televisione giocano un ruolo, sempre più fondamentale, nella vita quotidiana dei bambini e degli adolescenti. L'ambiente domestico (genitori e familiari) e la società, influenzano lo sviluppo cognitivo dei bambini, che s'identificano con la figura dell'insegnante e con i coetanei, compagni di gioco e di studio. La tv diventa, da una parte, uno strumento potenziale al servizio della didattica, se si creano programmi "ad hoc", tesi ad informare in modo obiettivo e realistico, e se i genitori confutano l'illusoria credenza che tutti i programmi rappresentino la realtà, dall'altra, come qualsiasi attività solitaria, anche se interattiva (computer), riduce il tempo che il genitore può dedicare allo sviluppo psico-emozionale del proprio figlio. In sintesi, spetta ai genitori essere la figura principale per la scelta dei programmi televisivi, avvalendosene in primo luogo per l'apprendimento di concetti che potrebbero essere di difficile assimilazione e, in secondo luogo, per evitare che di fronte alla visione di uno specifico programma televisivo possano rinforzarsi quei comportamenti imitativi, di passività e d’identificazione, che già di per sé costituiscono una violenza alla strutturazione autonoma dell'io infantile. Atteggiamenti che spesso sconfinano in atti violenti nei confronti della società, a causa di una sterile emulazione di personaggi e fatti contingenti. Altra nota dolente è il rapporto tra tv e obesità, dove è evidente la correlazione fra il numero d’ore trascorse davanti al video e la riduzione del tempo dedicato all'attività fisica, associato all'aumento del consumo di cibi fuori pasto davanti alla tv, stimolato dalle accattivanti visioni di spot commerciali. Un dato importante emerso dalla ricerca diretta sul campo è che i ragazzi riferiscono ai genitori le proprie impressioni sui contenuti dei programmi televisivi. Questo fa capire l'importanza dei parenti nel ruolo educativo di quest'ultimi nell'orientare al meglio la scelta dei programmi e, inoltre, rivela il ruolo positivo che la tv può esercitare quale occasione d'incontro e di dialogo fra genitori e figli. (10-11)

Le funzioni non sessuali della sessualità' adolescenziale

La sessualità adolescenziale ha aspetti polivalenti, con vari significati nascosti e, spesso, si tende a considerarne solo l'aspetto erotico, dimenticando che, da una parte, sono frutto di una continuità con le problematiche dell'infanzia, e che, dall'altra, sono il risultato del disegnarsi d'orizzonti nuovi e più vasti.

1. Sesso sedativo ed antidepressivo

Bisogna tenere conto che gli adolescenti sono spesso in situazioni di "crisi" e per questo "abitati", posseduti da un'angoscia che non sanno dove mettere. Vengono in pratica a situarsi in quello spazio logico e affettivo, che li chiama a mobilitarsi per tracciare un'esperienza esistenziale unitaria accompagnata dall'angoscia della scelta. In questo contesto, la masturbazione nell'adolescente non riveste un ruolo solamente edonistico, ma risponde molto spesso ad un bisogno consolatorio, rispetto agli insuccessi di vita. L'adolescente, divorato da un'angoscia destrutturante, trova in questa pratica la soddisfazione ad un bisogno di riparazione. La sessualità, relazionale e non, contribuisce in un contesto così conflittuale, ad abbassare il livello di tensione, d'angoscia fluttuante, che sarebbe, altrimenti, poco sostenibile. Per il giovane, l'aspetto consolatorio dell'attività sessuale raggiunge lo scopo d'ottenere una sedazione. La sessualità viene, in questo modo, adoperata come tranquillante, talora, come sonnifero. E' importante ricordare come i ragazzi possono evocare la loro depressione, attraverso la sessualità. L'aspetto compensatorio rispetto alla depressione non è presente soltanto nella masturbazione, ma anche nella ricerca precoce della relazione con l'altro sesso. In questo caso, "la sessualità genitale" serve a soddisfare un bisogno di contatto. La giovane coppia cerca nella sessualità genitale di colmare una lacuna affettiva, un contatto impossibile con l'adulto, una sessualità, talvolta, impulsiva vissuta con le caratteristiche dell'additività.

2. Sesso fornitore d'identità

Un'altra dimensione essenziale del vissuto sessuale dell'adolescente è legata alla domanda del "chi sono io?" Cui sente di dover rispondere. Quindi, la sessualità a quest'età, svolge la funzione di fornire "identità" o, quantomeno, di organizzare l'identità. Nel frattempo vive il disagio di un corpo che gli impone un cambiamento biologico e un cambiamento psichico con tempi che, spesso, non sono in sincronia fra di loro. Il ragazzo vive, spesso, il suo corpo come un estraneo, in continua evoluzione, modificato da leggi a lui sconosciute.

Secondo un recente sondaggio sul campo, sono emerse con chiarezza alcune tendenze: 1) lo stabilizzarsi dell'età dei primi rapporti sessuali tra i sedici e i diciassette anni; 2) la diminuita attrazione per l'ambiguità sessuale sottolineata da fenomeni della moda e dalla definizione di ruoli sociali, che differenziano il maschio dalla femmina; 3) una grande importanza giocata dalla coppia che è diventata garanzia contro l’AIDS (favorita, così, dagli adulti); 4) la scoperta della tenerezza, rispetto alla passione, un ritorno ai valori affettivi e alla intimità a due. Perfino la verginità è un valore che torna di moda tra le adolescenti (40% delle intervistate).

Questo modello di coppia-adolescente non segna più la rottura, la separazione dal gruppo di coetanei. Oggi, il gruppo adolescenziale ingloba la coppia come parte integrante. Quindi, la sessualità adolescente risponde ad un bisogno di comunicazione, un modo per essere in contatto con l'altro. Dunque, una sessualità con molti aspetti non sessuali, non erotici, da regolatore dell'umore, a veicolo d'affermazione del sé, a mezzo di comunicazione e di socializzazione. (12)

Psicopatologia dell'adolescente

I problemi degli adolescenti, i loro interessi, i loro comportamenti, la loro sessualità, sono per tutti gli adulti un argomento di generale curiosità, di grande preoccupazione e, infine, di grande nostalgia.

L'adolescenza è, comunque, una fase di conflitti, ma anche di nuovi equilibri e di nuovi adattamenti, perché emergono sulla scena psicologica, più o meno lentamente, grosse e complesse novità: scoperte, accettazioni, conflitti, capacità, nuove condotte. I bruschi cambiamenti somatici hanno profonde ripercussioni psicologiche, più o meno immaginarie e simboliche. La crescita fisica, più o meno disarmonica, produce una modifica dello schema corporeo delle relative gnosie, della rappresentazione intrapsichica del corpo e dello spazio, nonché, di tutte le equazioni di distanza (con, talora, l'insorgere di goffaggine, maldestrezza, disattenzione spaziale, difficoltà ad organizzare movimenti fini, ecc.). L'adolescenza è una crisi di passaggio e di trasformazione fra la sessualità infantile a quell'adulta. Anche se il concetto di crisi postula uno scontro, uno scompenso, una rottura d'equilibrio, tutto ciò non è costante né di per sé deve essere assimilato agli scompensi della patologia. Per questo, contro il concetto di crisi negli adolescenti si è parlato di processo evolutivo, in altre parole di secondo processo di "individuazione-separazione". Come il bambino piccolo si distacca dalla madre per internalizzare la prima esperienza familiare, l'adolescente si distacca dagli oggetti intra-familiari per una più matura conquista della sua identità. Esaminando il passaggio fra pre-pubertà e adolescenza, risulta più chiaro l'individuazione-separazione dell'adolescente. La prima è caratterizzata da debolezza istintuale (periodo di latenza) e da intenso sviluppo dell'io (testimoniata dall'attività conoscitiva e dal buon adattamento, fino all'idillio familiare), la seconda da esplosione istintuale (rivolta genitale). Il distacco dai genitori internalizzati, gli interessi extra-familiari, l'innamoramento, la crisi d'identità, la nuova strutturazione e rappresentazione del sé. Tutto ciò per la conquista di una nuova identità attraverso una nuova separazione. E, quando questo non avviene, l'io resta immaturo e si verificano disturbi legati alle fissazioni pulsionali pregenitali. In altre parole nell'adolescente affiora un equilibrio mentale diverso dalla fanciullezza, un equilibrio da cui dipenderà la salute e il progresso o la malattia. In questa fase le relazioni sociali dei ragazzi sono caratterizzate dalla ricerca d'amicizie intime dello stesso sesso (l'amico o amica del cuore) che sono idealizzati perché costituiscono, in realtà, una ricerca della propria identità sessuale, attraverso un modello d'identificazione esterno. E' una tendenziale omosessualità fisiologica, non patologica, che accompagna la svolta successiva del distacco dalla figura materna, dopo che sono ricomparsi l'attaccamento e la paura della seconda infanzia (che sono propri del cosiddetto complesso edipico). Il rapporto triangolare edipico con i genitori è superato in modo definitivo, quando lo sviluppo è normale. Con questo superamento l'adolescente accetta il proprio ruolo sociale maschile o femminile e compie una definitiva scelta eterosessuale. Negli adolescenti le dinamiche difensive assumono particolari connotati. Anna Freud, ha descritto in modo esemplare il meccanismo difensivo dell'intellettualizzazione, cioè la ricerca attraverso l'esercizio del pensiero di un miglior controllo degli istinti. Si pensi a quei ragazzi che hanno interminabili discussioni di filosofia, di politica o di costume, oppure cercano ansiosamente inquadramenti dottrinali politici o religiosi. Le dinamiche sono molteplici, ma negli adolescenti sottoposti a spinte istintuali, appaiono massicce, arcaiche, inadeguate. Tutti gli adolescenti appaiono egoisti e pieni di sé, ma si tratta di un passaggio obbligato del loro sviluppo per rinforzare le strutture dell'io ed anche per organizzare un modello od una meta, che sia un'immagine soddisfacente di se stessi, il cosiddetto "ideale dell'io ". Secondo una ricerca psicodinamica l'ideale dell'io deriva dall'idealizzazione dei genitori da parte del bambino, ma anche dall'idealizzazione del bambino da parte dei genitori ed infine dall'idealizzazione di sé da parte del bambino stesso. Inoltre, vi è il gruppo di compagni che fornendo richieste e attivando identificazioni, costituisce una parte importante dell'ideale dell'io dell'adolescente. Nel periodo adolescenziale le insidie sono ovunque, con numerosi conflitti possibili. Il contrasto fra una richiesta libidica intensa e scarsi modelli d’identificazione, in una società che, nonostante le apparenze, è sempre più coercitiva e infantilizzante, può creare e crea situazioni di pericolo irreversibili per i nostri ragazzi. Essi sempre più spesso fuggono nella scorciatoia apparente, della sintomatologia dissociale, ovvero verso le psico-sociopatie più o meno strutturate. Fra queste anzitutto le patologie deficitarie globali e settoriali. Il ritardo mentale è un mancato sviluppo globale delle funzioni di vertice della mente, per cui le capacità rimangono povere, poco duttili e integrate, con prevalenti disturbi d’adattamento (incapacità sociali, dipendenza, rigidità, reattività, insoddisfazione, etc.). I difetti settoriali (percettivi, espressivi, linguistici, motori, d'attenzione, di memoria, ecc.) Si traducono ben presto in difficoltà scolastiche d'apprendimento e conseguenti incapacità relazionali più o meno importanti. I disturbi nevrotici e depressivi (ansiosi, isterici, ossessivi, depressivi) determinano personalità rigide, complicate, disadattate. I disturbi cosiddetti 'borderline' sono caratterizzati da anomalie della condotta, spesso gravi per difetto d'integrazione e di controllo pulsionale, con incostante 'giudizio di realtà'. Infine i gravi disturbi 'psicotici', che determinano incoerenza del pensiero, perdita del controllo critico, produzione d’idee deliranti e di fenomeni allucinatori, auto ed etero-aggressività, isolamento sociale. I disturbi psicopatologici, qui brevemente elencati, hanno grande importanza e grande specificità in adolescenza, per i fattori endogeni connessi con lo sviluppo, ma soprattutto per le particolari condizioni della maturazione psico-sociale. (13)

1. Adolescenti e suicidio

Leopardi ha scritto: "A me la vita è male". E' come dire: "La vita mi fa del male". Il suicidio, inteso come modo per uscire dalla vita, nasce dalla convinzione d'aver perduto ogni possibilità d'essere amati e dalla fantasia di trovare una liberazione da una situazione insostenibile. Per il suicida, la morte tende ad assumere un significato liberatorio, perché essa riveste, paradossalmente, il significato di luogo dove si può stare sereni e tranquilli, finalmente liberati da "una cattiva vita". Le cause del suicidio sono sempre molteplici e difficili da stabilire poiché variano da caso a caso. Secondo diversi studi effettuati sull'argomento, risulta che gli adolescenti d’oggi soffrono per mancanza di sicurezza, d'identità, in rapporto ai cambiamenti repentini della società e della qualità della vita di famiglia, a causa del numero crescente delle separazioni e dei divorzi, dell'uso di droghe ed alcol, della pressione per i successi scolastici, risoltisi, invece, in delusioni fallimentari, nonché a causa dell'angoscia per il futuro. Fra le motivazioni apparenti più frequenti dei suicidi adolescenziali, troviamo quelle di un brutto voto a scuola oppure di una bocciatura. Il vero problema è il significato interiore della frustrazione vissuta in seguito alla bocciatura o al cattivo voto. Il giovane può pensare che entrambi, non sarebbero tollerati dai genitori e questo potrebbe significare, una brusca separazione da loro e, quindi, un motivo sufficiente per desiderare la morte.

TAB. 1 FATTORI DI RISCHIO SUICIDARIO

1) precedente tentativo di suicidio

2) disturbi psicopatologici rilevanti clinicamente

3) abuso d'alcol e sostanze stupefacenti

4) disturbi della personalità

5) patologia della struttura familiare (p.e. scarsa capacità di comunicazione all'interno del nucleo familiare o perdita di un genitore per morte, separazione o divorzio)

6) suicidio di un genitore o parente stretto

7) sieropositività HIV, AIDS

8) disoccupazione, delinquenza giovanile, promiscuità sessuale.

2. Prevenzione primaria degli atti autolesivi

L'obiettivo preventivo primario per evitare che un soggetto inizi seriamente a pensare o progettare d'uccidersi, è quello di garantire un corretto sviluppo psicofisico del giovane eliminando, per quanto possibile, tutte le cause di disagio psichico ed ambientale. I campi d'intervento dovrebbero essere rappresentati dalla famiglia, dalla scuola, dai servizi sociosanitari, dal mondo del lavoro.

Abbiamo già accennato ai fattori patologici all'interno della famiglia che connotano le cause del disagio giovanile. Risulta, comunque, molto frequente rilevare genitori che s'occupano poco dei loro figli, rimanendo in pratica assenti dalla loro vita, per motivi di lavoro o per desiderio di realizzazione della propria personalità al di fuori dell'ambito familiare. Questo vuoto emozionale ed educativo innescato dalla crisi della famiglia potrebbe in parte essere compensato dalla scuola. Il ruolo degli insegnanti è di primaria importanza nel rafforzare l'autostima dei propri alunni migliorando le capacità individuali di far fronte agli eventi negativi della vita, nonché nel consolidare i legami affettivi e solidaristici.

Così, come i servizi sociosanitari dovrebbero acquisire specifiche competenze in quella fascia d'età, l'adolescenza, ancora oggi troppo spesso "terra di nessuno".

Fondamentale risulta l'inserimento nel mondo del lavoro, ma anche lo sviluppo d’attività sportive e ricreative potrebbero togliere dalla strada parecchi ragazzi sottraendoli al ricatto della micro e macrocriminalità.

3. Prevenzione secondaria degli atti autolesivi

La prevenzione secondaria consiste nel riconoscimento dei primi segnali di un comportamento autolesionistico per intervenire prima che assumano rilevanza preoccupante. In quest'opera di screening devono essere coinvolti i familiari e tutte le figure professionali in contatto con il mondo giovanile. L'aspetto fondamentale è rappresentato dal colloquio con l'adolescente, cercando di stabilire una relazione nella quale si realizzi la comunicazione delle esperienze del giovane. L'atteggiamento di comprensione e di disponibilità può favorire l'instaurarsi di un rapporto di fiducia. Quando sono individuati uno o più fattori di rischio è necessario esercitare un'azione di controllo su di loro stabilendo contatti con le persone disponibili nella comunità, in modo da seguire il giovane, non solo a livello individuale, ma anche nel suo contesto familiare e sociale. (14-15) In ogni caso bisogna prestare attenzione a segnali comportamentali d'allarme.

TAB. 2 SEGNALI COMPORTAMENTALI DALL'ALLARME CHE PRECEDONO GLI ATTI AUTOLESIVI NEGLI ADOLESCENTI

1) tristezza, pianto, depressione dell'umore

2) astenia, abulia, affievolimento delle energie

3) aumento o diminuzione improvvisa del sonno

4) aumento o diminuzione improvvisa dell'appetito

5) aumento della svogliatezza, della noia e calo dell'attenzione

6) diminuzione della capacità di concentrarsi, di prendere decisioni

7) disforia, aggressività, cambiamenti repentini del tono dell'umore

8) tendenza ad arrabbiarsi e a litigare, seguito da lunghi periodi di silenzio

9) abbandono delle attività sociali, tendenza alla solitudine

10) perdita degli interessi sociali e sportivi

11) peggioramento del rendimento scolastico

12) continue disattenzioni in classe e facile distraibilità

13) abbandono senza ragione di cose precedentemente possedute

14) comportamenti a rischio (correre in moto, in macchina, etc.)

15) crescita dei sensi di colpa, riduzione dell'autostima

16) perdita delle speranze per il futuro, assenza di progettualità

17) uso d’alcol, psicofarmaci e droghe

18) negligenza nella cura dell'aspetto personale e dell'igiene

19) allusioni alla morte nei temi, nelle poesie e in altri scritti

20) improvviso disinteresse per la vita di relazione

21) cambiamenti degli interessi e dei comportamenti sessuali

Molti di questi comportamenti sono ovviamente comuni alla gran parte dei giovani per cui acquistano un significato specifico solo quando si trovano associati a specifiche cause di rischio, specie se coesistono fattori precipitanti o situazioni favorenti.

4. Prevenzione terziaria degli atti autolesivi

Se vi è già stato un tentativo di suicidio è necessario determinare i dettagli compresa la pericolosità dei mezzi adottati che spesso riflette la gravità del desiderio di morire dell'adolescente. Tale pericolosità va definita sulla base dell'atto compiuto, del danno conseguente e delle circostanze in cui si è realizzato il tentativo. Occorre ricordare che qualsiasi tentativo di suicidio, sia esso dimostrativo oppure potenzialmente letale, accresce, enormemente, la possibilità che possa verificarsi un’ulteriore condotta autolesiva nella stessa persona. Questi giovani andrebbero, pertanto, seguiti con particolare attenzione dai servizi sociosanitari nel tentativo di eliminare i fattori eziopatogenetici che hanno portato al gesto suicidario.

Linee di prevenzione nel mondo giovanile dei problemi alcol - droga correlati

Particolare interesse riveste il concetto di prevenzione riguardo alle problematiche alcol-droga correlate, nella fascia giovanile della popolazione, in un arco d'età estremamente delicato, quale è quello che va dai tredici - quattordici anni, fino al raggiungimento della maggiore età. (1) Il sopraggiungere della fase puberale e, quindi, della ricerca, spesso contraddittoria del proprio essere nel mondo, creano delle eventualità di fasi d'incontro - scontro con il mondo circostante, specialmente con il mondo degli adulti. La scuola rappresenta, quando l'adolescente scelga e possa continuare gli studi, un prezioso momento di decodificazione del disagio giovanile. Più difficoltoso e problematico appare il compito di seguire il giovane, quando questi abbandona la scuola e non abbia una famiglia attrezzata ed attenta verso le sue problematiche. La scuola, invece, sia da parte del genitore che dell'insegnante, pur nella diversità dei ruoli e delle situazioni, appare strumento importantissimo, nel decodificare il disagio e, talvolta, l'inquietudine del mondo giovanile. Le capacità d’ascolto, le capacità di saper offrire un'atmosfera di calda empatia ed, inoltre, i tentativi di rivedere le proprie esperienze d’adolescente, mettendole a confronto con quelle narrate dai coetanei, sono stimolate dall'ambiente scolastico. Un doveroso plauso va fatto, in questo contesto, alle recenti decisioni governative di prolungare l'obbligo scolastico sino ai sedici anni. In ambito scolastico l'obiettivo principale deve essere quello d'offrire all'adolescente uno spazio in cui parlare apertamente del suo mondo interiore, delle emozioni che sperimenta e delle difficoltà che incontra. In particolare è essenziale ascoltare i sogni ed i desideri del ragazzo, gratificandolo nella sua parte creativa. Aiutandolo a rimuovere gli ostacoli ed ancora insegnandogli a farlo in prima persona, per attuare la parte concretamente ed opportunamente realizzabile del sogno. Importante è la funzione garantita dai singoli adulti nei vari ruoli, ma in modo particolare dalle istituzioni. L'apertura di uno "sportello informativo" dovrebbe consentire un'attenta e precisa informazione di tutte quelle attività, che sono organizzate per essere fruite dal mondo giovanile, quali:

- le associazioni sportive del territorio, nel quale vive il ragazzo;

- le biblioteche;

- gli impianti sportivi;

- le attività culturali;

- le varie forme d’aggregazioni giovanili (religiose e laiche);

- i distretti sociosanitari, in modo particolare per una corretta informazione sulla

sessualità (consultori familiari, etc.);

- i vari presidi della ASL che operano sul territorio (servizi per la prevenzione delle tossicodipendenze, centri d’igiene mentale, etc.).

Tutto questo nell'ottica che non è necessario creare, per i giovani, presidi ed interventi nuovi e nuovissimi, ma utilizzare al meglio e possibilmente potenziare le strutture ed i mezzi di cui siamo già detentori. (16-17)

Lo sport e il disagio giovanile

Per la salvaguardia dello stato di salute dell'adolescenza la pratica dello sport è indispensabile. E' un complemento essenziale e piacevole per lo sviluppo psicofisico. E' uno strumento certamente indispensabile per la maturazione psicologica del giovane e per una migliore definizione della sua personalità. Inoltre, presenta alcune caratteristiche comuni alla struttura familiare e scolastica, in quanto, anch'esso stabilisce regole da seguire, impegni e responsabilità da dover accettare. Contiene, però, elementi importanti estranei alla comune routine familiare e scolastica, elementi che il ragazzo giudica tipici della vita adulta, perché comportano libertà di scelta, d’azione ma, soprattutto, garantiscono una sensazione d’indipendenza. Lo sport è avvertito com’evasione dalla realtà e dà al giovane la sensazione di libertà e di completezza del proprio io. Alcuni sport di gruppo sono in grado d'unire i giovani, di creare situazioni sociali basate su interessi comuni, stima vicendevole, collaborazione. Nell'ambiente sportivo si definiscono situazioni psicologiche importanti che portano all'amicizia come pure all'espressione di un’ostilità controllata, nel significato d'ostacolo, d’avversario da superare, ma anche da rispettare. La pratica sportiva favorisce lo sfogo fisiologico dell'aggressività del ragazzo, aggressività legata al suo essere umano e, talora, accresciuta dai doveri familiari e scolastici ed allena il giovane ad utilizzare quest'energia per la sua economia psichica, stabilendo limiti e regole, che insegnano l'osservanza dei diritti degli altri. Ogni attività sportiva presenta un valore psicoterapeutico, soprattutto negli adolescenti in uno stato di disagio esistenziale con turbe nevrotiche, caratteriali. Ragazzi poco adattati all'ambiente sociale, timidi, timorosi, insicuri, schivi, iperprotetti dalla famiglia o all'opposto non protetti dal contesto familiare. Questi adolescenti traggono enorme giovamento da una regolare e controllata attività ginnico - sportiva, talora imposta all'inizio, ma in seguito accettata con piacere. E' possibile così attenuare sul nascere una deviazione nevrotica o addirittura risolvere le problematiche dell'adolescente trasferendo il complesso conflitto psichico del ragazzo nelle molteplici situazioni presenti nella competizione atletica. (18)

Brevi considerazioni sulla condizione adolescenziale

L'aggravarsi d’alcuni fenomeni di grande rilievo sociale, come le tossicodipendenze e le devianze giovanili, contribuiscono a rendere più esteso ed urgente il bisogno che nuove forme d'intervento per l'adolescenza. In alcuni stati europei, così come negli Stati Uniti, si è avuta di pari passo una crescita di risorse specifiche per questa problematica fascia d’età. In Italia questo non si è ancora verificato e a tutt'oggi vi è una forte carenza di risposte specifiche ai problemi dell'adolescenza. Per certi versi si può affermare che si tratta di una popolazione esclusa dai servizi socio-assistenziali esistenti ed istituzionalizzati.

L'incremento del disagio adolescenziale richiede una forma d’intervento innovativa per rispondere ai bisogni di prevenzione degli adolescenti. L'adolescenza costituisce una fase evolutiva della vita dell'uomo particolarmente ricca di tratti comportamentali e stati psicologici incerti e contraddittori, con forti tensioni emotive e mutamenti che si verificano a livello fisiologico, psicologico ed interessano l'intera personalità. (19) L'intervento preventivo dovrebbe, perciò, rappresentare un momento contenitivo di tali aspetti di vulnerabilità da realizzare attraverso la cooperazione di varie strutture ed istituzioni sociosanitarie già presenti sul territorio, quali, i consultori familiari, i servizi d’igiene mentale, i servizi per le tossicodipendenze, ma anche e soprattutto con il coinvolgimento delle organizzazioni giovanili di volontariato e d’aggregazione culturale, ricreativa e sportiva. Un nuovo modello d’intervento integrato e multidisciplinare, coordinato da una specifica struttura sociosanitaria, rivolto ai giovani ed alle loro famiglie. Un intervento formativo ed informativo dove ogni ragazzo può trovare uno spazio per le proprie esigenze. Una struttura di servizio dove trovare un sostegno sociale in un momento particolare della vita dell'individuo, per sviluppare gli aspetti positivi della personalità, compensandone le debolezze le frustrazioni ed i conflitti tipici dell'età adolescenziale. Risulta, perciò, opportuna una strategia preventiva a supporto della stima di sé, per meglio affrontare il senso d’ansia che invade l'adolescente “sano” in questo periodo di transizione, ma anche per ridurre l'insorgere di più gravi disturbi del comportamento sociale, dell'individuo in maturazione.

Riferimenti bibliografici
1. MANNA V.: L'assordante silenzio della libertà. Appunti per una prevenzione scientificamente orientata del fenomeno tossicodipendenze. Leone ed., Foggia, 1992.
2. MANNA V.: Il disagio giovanile come disagio della civiltà: alla ricerca di valori umani autentici nella prospettiva della psicologia transpersonale. Gnosis. VIII, 9, 1994.
3. ERIKSON E.H.: The life-cycle completed: a review. Norton, New York, 1982.
4. MAHLER M.: Thoughts about development and individuation. Psychoanalytic study of the child. 18, 307-324, 1963.
5. GODINO A.: Le ricerche sulla “mid-life crisis” e la psicologia dell'età adulta. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXI, 2, 1-70, 1990.
6. GODINO A.: Le ricerche sulla “mid-life crisis” e la psicologia dell'età adulta. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXI, 2, 292-307, 1983.
7. FUSCO A., BARONCINI P., CASTELLI C., FUMAI A., GODINO A.: La crisi di mezza età: continuità e cambiamento. Tip. Ed. San Benedetto, Cassino, 1984.
8. STORR A.: A psycho-analytic look at depression. British Journal of Psychiatry, 143, 431-436, 1983.
9. CANESTRARI R., GODINO A.: Modelli psicologici dell'adolescenza. Rivista Italiana di Pediatria, 11, 3, 231-236, 1985.
10. MURRAY J.P., KIPPOX S.: Children's social behavior in three towns with differing television experience. J. Commun. 30, 19-29, 1978.
11. WILLIAMS T.M. (ed.) : The impact of television. New York, Academic Press inc., 1986.
12. PASINI W.: La qualità dei sentimenti, Mondadori Ed., Milano, 1991.
13. MARCELLI D., BRACONNIER A.: Psicopatologia dell'adolescente. Masson Ed., 1991.
14. OTTO U.: Suicidal acts by children and adolescent. A follow up study. Acta Psychiat. Scand. Suppl. 233, 1972.
15. JEAMMET P.: Psicopatologia dell'adolescenza. Ed. Borla, 1992.
16. MANNA V., TREDANARI G., MESCIA G.: Psicogenesi delle farmaco-tossicodipendenze. Salute e Prevenzione, 1, 63-71, 1990.
17. MANNA V., MESCIA G., FERRONE C.M., GIORDANO M.A.: Ouroboros, il serpente alchemico: verso l'integrazione tra psicoterapia e farmacoterapia nel trattamento delle dipendenze da sostanze e dei disturbi psicopatologici correlati. Giornale Italiano di Psicopatologia, 2, 209-216, 1998.
18. ANTONELLI F.: Psicologia e psicopatologia dello sport, Leonardo Edizioni Scientifiche, Roma 1963.
19. DOLO E. Adolescenza. Mondadori. Milano, 1990.

A cura del Dr Vincenzo Manna

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NON PIÙ A DISAGIO

Fonte: http://www.chiarasangels.net/pagine/disagiogiovanile.htm

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Forum IL DISAGIO GIOVANILE

Vari articoli scaricabili da qui

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Disagio giovanile,
fra realtà e luogo comuni


Interessante, da leggere a questo link:
http://www.riviste.provincia.tn.it/ppw/Trentino.nsf/0/B276CA3A9419D603C125729E003E8E42/$FILE/9disagio.pdf?OpenElement
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09/03/2011 15:23

Materiale da elaborare (parte 7)
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La trasmissione GAP - Generazioni alla prova (RAI 3,Talk show)
il 29/09/2010 ha trasmesso una puntata proprio sul "Disagio giovanile nel 2010"
Tematiche: Giovane, Disagio, Comportamento a rischio, Adolescenza, Psichiatra, Psicoterapeuta, Malattia, Droghe, Alcool, Consumo, Abuso, Anoressia


Fonte: http://www.progettosteadycam.it/pagine/ita/dettaglio_streaming.lasso?id=51487#testo

Nella puntata di Gap. Generazioni alla prova, la trasmissione di Rai Educational, in onda questa sera, viene proposta un’indagine sul mondo degli adolescenti a partire dagli evidenti fenomeni di disagio che si manifestano attraverso il consumo e l’abuso di alcool, droghe leggere e non, sempre più massiccio. Un fenomeno di cui si dibatte con lo psichiatra e psicanalista Alessandro Grispini, dirigente del Centro di Salute Mentale Plinio della ASL Roma. Ospite in studio il dott.Grispini si confronta con la platea dei giovani presente in studio, in un dibattito moderato da Benedetta Rinaldi, alla conduzione del programma. Nel corso della puntata, introdotta come di consueto da un brano inedito del rapper Marracash, anche un’intervista ad Emanuele Scafato, Direttore Osservatorio Nazionale Alcool, e Simona Pichini, Primo Ricercatore Osservatorio Fumo Alcol e Droghe. Alessandro Grispini è psichiatra e psicoanalista, dirige un Centro di Salute Mentale nella ASL Roma E. È docente di Clinica Psichiatrica presso la Scuola di Specializzazione della II Università di Roma “La Sapienza”. Ha scritto e curato numerosi libri di psicologia, tra i quali "Preventive strategies for schizophrenic disorders" (Fioriti 2003). Ha dedicato molta attenzione all’indagine sui fattori di rischio dello sviluppo depressivo e sulle strategie di riconoscimento precoce della depressione nelle donne in gravidanza e nel puerperio. "Le depressioni postpartum. Una guida per la sopravvivenza" (Fioriti, 2008), è un manuale destinato alle donne e ai loro familiari, in cui viene descritto in modo molto semplice il problema e vengono forniti consigli utili per imparare a gestirlo. In precedenza aveva pubblicato un altro manuale di psicologia, in collaborazione con Renato Piccione, "Prevenzione e salute mentale. Fondamenti, pratiche, prospettive" (Carrocci, 1998).



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Disagio Giovanile


Il disagio giovanile è una forma di malessere che interessa la delicata fase in cui i giovani sono impegnati nella costruzione di un’identità separata rispetto a quella dei genitori e chiamati ad intraprendere azioni e a vivere le proprie esperienze in modo autonomo rispetto alla famiglia.
E’ l’ansia di libertà a spingere i giovani verso l’indipendenza, ma non sempre è accompagnata da una completa disponibilità ad assumersi le responsabilità che comporta una scelta di questo tipo: l’angoscia della libertà paralizza e induce il giovane a scegliere una condizione di dipendenza, dopo un lungo periodo di sospensione tra emancipazione ed omologazione.
L’uomo durante tutto l’arco della propria vita tende a preferire ai rischi provenienti dalla libertà la sicurezza che deriva dall’omologazione sociale e dallo “spirito di gregge”, quindi non sorprende ritrovare la stessa attitudine amplificata in età giovanile, quando è maggiore la fragilità e minore la sicurezza che deriva dall’esperienza.
Per ridurre l’angoscia, il giovane necessita di un modello a cui adeguarsi, per delimitare le diverse possibilità tra cui scegliere per strutturare la propria personalità, stabilire mete da raggiungere e codici di comportamento da seguire. Tale processo segue uno svolgimento semplice e naturale all’interno di una struttura sociale statica e fondata su valori ben definiti: i modelli comportamentali ed etici riducono il numero delle alternative e guidano il giovane attraverso le trasformazioni della pubertà e dell’adolescenza, fornendo loro solidi punti di riferimento. Gli ideali di vita della nostra società vengono più spesso sbandierati che praticati concretamente, tenuto conto che, sebbene molti valori siano condivisibili, probabilmente, non esiste una scala di valori assoluta ed universale: ogni scala varia nel tempo e da un individuo all’altro. I giovani richiedono semplicemente esempi di vita ed espressioni di vera interiore coerenza tra pensiero ed azione che sono portati ad interiorizzare ed a imitare; ciò presuppone da parte dei genitori e degli educatori di aver raggiunto questa coerenza interiore, una matura consapevolezza. Si può diventare solo ciò che ci s’impegna ad essere, si è costruttori del proprio futuro, per questa ragione è necessario formare in ambito scolastico e familiare la gioventù ai valori umani autentici. Tuttavia la vita è un continuo superamento di schemi e forme, la coerenza non può diventare un valore assoluto, cristallizzarsi: è necessario trovare un equilibrio tra forze opposte, interiori ed esteriori, l’uomo deve vivere in maniera armonica il rapporto con se stesso, con il suo ambiente sociale e con il mondo.
Il problema dei giovani in difficoltà è accettare se stessi ed il mondo in cui vivono, senza perdere la fiducia nella possibilità di apportare cambiamenti tramite la forza di volontà ed il proprio impegno.
L’origine del dolore esistenziale nei giovani nasce dal desiderio di fuga dalla realtà, nel rifiuto della verità, nella ricerca di un benessere materiale che racchiude in sé l’illusione dell’esistenza di un’individualità a sé stante, separata dagli altri e dal mondo. Il giovane assiste ai propri bruschi cambiamenti fisici e comportamentali legati alla crescita e prova un profondo senso di insicurezza, fa fatica a sentirsi accettato dagli altri, di cui ambisce ad ottenere la stima.
Quando il malessere si acutizza, l’umore negativo persiste in maniera prolungata per un notevole arco di tempo, si può pensare che il giovane stia attraversando un periodo di forte depressione. La depressione può essere di due tipi, reattiva ed endogena. Si parla di depressione reattiva nel caso in cui il fattore scatenante è esterno ed identificabile in un forte trauma, come ad esempio la fine di un rapporto d’amore, la morte di un parente, un insuccesso scolastico, un episodio che ha provocato nel giovane un sentimento di delusione o umiliazione, il disgregarsi della famiglia.
Un motivo di forte sofferenza è il divorzio o la separazione dei genitori: oltre a sentirsi direttamente responsabile dell’evento e ad introiettare la colpa, il giovane vive, nella maggior parte dei casi, un momento di profonda solitudine ed abbandono, poiché i genitori sono troppo presi dalla propria sofferenza per preoccuparsi di quella dei figli. I giovani che hanno patito la mancanza di genitori assenti, troppo occupati a ricercare una realizzazione professionale e sociale fuori dall’ambiente domestico, tendono a ricercare legami affettivi ed amorosi con l’altro sesso piuttosto precocemente e in maniera impulsiva. In questi giovani la sessualità assume la connotazione della ricerca di contatto e di conforto, necessaria a mettere fine al proprio malessere e a sentirsi accettati; per questa ragione non è difficile immaginare quali terribili conseguenze potrebbe apportare la fine di una relazione all’autostima e all’equilibrio psichico di un giovane. Molti sono stati i casi di suicidio tra i giovani per la fine di un amore e molti gli episodi di autolesionismo che hanno accompagnato le diverse fasi che precedono il divorzio dei genitori.
E’ diffusa tra i genitori la tendenza a fornire ai giovani surrogati d’affetto; questa sorta di compensazione verrà ricercata successivamente dal giovane in altre forme di gratificazione, come l’abuso di stupefacenti.
La depressione endogena non prende avvio da un episodio esterno, ma interiore: i sensi di colpa e il dolore, a lungo repressi dal giovane, si manifestano improvvisamente in modo violento e l’individuo si trova improvvisamente incapace di gestire l’aggressività o di reprimere le voci persecutorie che gli affollano la mente e, nei casi più gravi, può cadere in preda ad un delirio psicotico.
I principali sintomi della depressione nei giovani sono il pianto, la perdita di interesse per ogni tipo di attività che in precedenza veniva intrapresa con entusiasmo, la mancata volontà di prendersi cura del proprio aspetto, l’ansia paralizzante, l’isolamento e il desiderio di sfuggire ad obblighi e responsabilità. La situazione diviene critica nel momento in cui la mente del giovane è frequentemente attraversata da pensieri di morte o quando tentativi di suicidio vengono impiegati per fare breccia prepotentemente nell’indifferenza degli adulti.
Molto spesso genitori ed insegnanti tendono a trascurare i segnali che i giovani inviano loro: la gioventù, se osservata in maniera superficiale, potrebbe apparire serena, felice e capace di far fronte ai cambiamenti soltanto con le proprie risorse; tuttavia i sintomi di malessere vengono spesso mascherati da atteggiamenti compulsivi e maniacali. Spesso un’euforia forzata ed esagerata cela un’aggressività repressa, un dolore profondo che è necessario nascondere all’interno per non rischiare di essere estromessi da un circuito sociale, le cui parole d’ordine sono efficienza e successo. La depressione giovanile è una conseguenza della scarsa tolleranza dell’impotenza: nasce quando un individuo è inibito a realizzare i propri obiettivi (per un giovane la possibilità di intraprendere la carriera desiderata con ottime possibilità di successo), progetti, a raggiungere le mete che si era prefissato; il giovane è talmente impegnato nel conseguimento dei suoi obiettivi da non avere tempo di interrogarsi sulle radici del suo malessere: la sua esistenza è meccanizzata e svuotata di significato, la vita emotiva pietrificata o tenuta a bada tramite la freddezza e il cinismo. Uno stile di vita di questo tipo spinge il giovane a fare uso di sostanze stupefacenti o di psicofarmaci per mettere a tacere le parti di sé sofferenti: la depressione è sinonimo di inattività e di anormalità, quindi rappresenta per il giovane, già poco sicuro di sé, motivo di vergogna e di emarginazione. Secondo lo psichiatra statunitense Meltzer (1990), «il paziente lotta costantemente con il conflitto tra adattamento sociale e relazioni interne, ossia tra la volontà di dare voce fino in fondo al proprio dolore e il timore di venirne travolto, con il rischio di apparire agli occhi degli altri uno che ha perduto la ragione e ha compromesso il proprio funzionamento sociale». Quindi non stupisce vedere molti giovani con problemi molto gravi, negare di possederli e rifiutare di rivolgersi ad uno specialista per diffidenza e con il pregiudizio di essere considerati “malati”. Un'altra ragione di resistenza dei giovani di fronte alla psicoterapia è dovuta alla paura di trovarsi di fronte ai problemi che finora avevano rifiutato di affrontare, per tenere testa ai ritmi frenetici dell’esistenza.
La frenesia, l’onnipotenza e l’autoesaltazione sono parti narcisistiche della personalità che sono influenzate non soltanto dalla relazione genitore-bambino (i bambini idealizzano il rapporto con i genitori), ma anche dai modelli culturali di massa. Dagli anni Settanta in poi le icone della cultura giovanile che dimostravano di non temere di mostrare le proprie fragilità emotive sono state sostituite dall’immagine trasmessa dai mass-media di una gioventù esibizionista, arrogante e autoesaltata che ostenta sicurezza, disposta a contraffare i propri sentimenti anche a costo di sacrificare la parte più autentica di sé.
In passato i giovani provavano timore nei confronti degli adulti, non erano disposti a confidarsi e la ribellione costituiva l’unica risposta possibile all’atteggiamento autoritario di genitori ed insegnanti; oggi a prevaler è il desiderio di comunicare la propria sofferenza, il bisogno di essere ascoltati e capiti dagli insegnanti, che non sempre si dimostrano all’altezza della situazione, non essendo né psicologi, né genitori sostitutivi.
Gli insegnanti dovrebbero subentrare ai genitori nel saper captare i sintomi del disagio giovanile, con la consapevolezza del forte impatto che questi ultimi hanno sul rendimento scolastico. I giovani tentano di mettere da parte la sofferenza per non distogliere l’attenzione dallo studio, ma quando i problemi ritornano a galla, portando con sé una certa dose di angoscia, oltre alla normale fatica che lo studente deve sostenere in vista di un compito o di un esame, unita ad una certa quantità di ansia per l’esito, si viene ad aggiungere un peso ulteriore, una quantità maggiore di dispendio di energie psichiche, che spesso non riesce più ad essere tollerato con conseguenze disastrose per la concentrazione e l’apprendimento. Quando il limite di sopportazione viene superato il giovane sente l’esigenza di mettere da parte gli impegni per prendersi cura della propria interiorità.
L’insuccesso scolastico è una causa molto frequente di depressione per il giovane che sente di aver deluso il progetto di vita condiviso con il genitore con il quale vorrebbe continuare a rispecchiarsi e di cui teme l’abbandono. Il disagio giovanile nasce anche dal desiderio di voler mantenere il legame con i propri genitori attraverso il proprio corpo bambino, dai caratteri meno differenziati, e dal rifiuto del proprio corpo adulto, ma, allo stesso tempo, l’adolescente è consapevole che, rifiutando di accettare l’adempimento dei compiti che gli impone questa fase della propria vita, comprometterà irrimediabilmente il proprio processo di maturazione e il completamento della formazione di una personalità adulta ben strutturata. L’anoressia e i disturbi della sfera d’identità sessuale sono il risultato di tale contraddizione; in particolare, la ricerca ad ogni costo della forma fisica, finalizzata a se stessa, è paragonabile alla ricerca di paradisi artificiali, a cui i giovani ricorrono per sfuggire alla realtà.
In conclusione il disagio giovanile solitamente dipende da due tendenze contrapposte: l’anticipazione o il rinvio estremo dell’ingresso nell’età adulta.
L’evoluzione dell’adolescente può essere anticipata da esperienze precoci di inserimento nel mondo del lavoro e dal ritiro dalla scuola. Gli studenti universitari e coloro che sono costretti ad intraprendere lunghissime ricerche di una prima occupazione sono costretti a dipendere dai genitori per il proprio sostentamento, così che il loro statuto di adolescenti viene prorogato sino all’età di trent’anni. La crisi nell’offerta dell’impiego e il sempre minor numero di coppie che decidono di sposarsi in giovane età non fa altro che accrescere tale tendenza, ulteriormente inibita dalla non accettazione da parte dei genitori della separazione (tenuto conto che il periodo in cui il figlio dovrebbe assumere un’identità autonoma coincide con la crisi di mezz’età del genitore). Il genitore diventa più fragile e meno propositivo verso il futuro e incapace di soddisfare le aspettative dei figli che continuano a ricercare in lui un esempio di forza e perfezione.
Una delle principali difese psicologiche a cui ricorrono gli adulti –per sminuire le accuse che i giovani, spesso giustamente, rivolgono loro, per aver contraddetto i valori condivisi con le nuove generazioni–è quella di mostrare poca stima nei confronti dei giovani e di emarginarli.
I giovani, dal canto loro, non sempre possiedono le energie necessarie a sostenere lo sforzo e il dolore che deriva dalla separazione e, dopo aver perso ogni speranza di conquistare la propria autonomia, possono ripiegare in forme aberranti di sottomissione, rifugiandosi in pseudo-realtà mistiche, in organizzazioni, sette e culti misterici, e regredire in una condizione di dipendenza psicologica da maghi e guru che non sempre sono guidati da nobili intenti e tendono piuttosto ad approfittarsi della condizione di fragilità psicologica dei loro adepti.

Alcolismo

I giovani sono considerati la principale categoria a rischio a causa della sua vulnerabilità agli effetti fisici e psichici dell’alcol. La dipendenza da alcol interessa soprattutto gli individui di sesso maschile (anche se il fenomeno sta registrando una rapida diffusione anche tra la popolazione femminile), di età compresa tra i 15 e i 29 anni, con un picco tra i 18 e i 25 anni.
Le principali motivazioni che spingono i giovani al consumo di bevande alcoliche sono legate ad una disperata ricerca di un migliore rapporto con gli altri: l’alcool disinibisce, aiuta il giovane a superare i momenti di disagio e di timidezza, ad ostentare un comportamento disinvolto e sicuro di sé nell’approccio con l’altro sesso. Sempre più spesso i giovani ricorrono ai superalcolici per conquistare la stima e l’ammirazione all’interno del gruppo dei coetanei, per essere al centro dell’attenzione e ovviare all’incapacità di essere originali e simpatici. La maggior parte dei giovani ha iniziato a bere e ad ubriacarsi in compagnia degli amici, al bar o al ristorante, al pub o all’interno di un locale, oppure a casa di amici o durante una festa, mai da solo. L’alcol è più accessibile a tutti rispetto alla droga, quindi è diffuso in tutti gli strati sociali. Lo stimolo a bere nasce nei giovani da una condizione di insicurezza e dalla voglia di rispecchiarsi nei modelli di perfezione che fornisce la nostra società, unicamente per essere accettati ed apprezzati dagli altri.
Nei giovani è emersa inoltre la coesistenza di due atteggiamenti opposti: la tendenza a bere nei momenti di euforia per sentirsi integrati nel gruppo e condividere momenti piacevoli, e la tendenza a bere nei momenti di noia, per soddisfare la volontà di divertirsi sempre e ad ogni costo, per non sembrare meno interessanti agli occhi degli altri e continuare a sentirsi i migliori. In ogni caso la capacità dell’alcol di indurre euforia o depressione dipende dallo stato d’animo in cui il soggetto si trova al momento dell’assunzione.
L’abitudine ad assumere sostanze alcoliche provoca assuefazione e dipendenza, mentre gli effetti sperimentati la prima volta si attenuano e, per ottenerli nuovamente, sono necessarie dosi sempre maggiori.
Spesso l’assunzione sempre più massiccia di alcol assume una funzione lenitiva: avere la mente annebbiata aiuta i giovani a dimenticare momentaneamente i propri problemi, i fallimenti e le frustrazioni, li libera da un dolore profondo che sfocerebbe in un panico paralizzante.
Alcuni sono afflitti da un abuso di alcol periodico, in quanto il desiderio di bere viene risvegliato unicamente al ripresentarsi di un determinato problema che assilla il giovane.
La maggior parte degli alcolisti fatica ad ammettere di avere un problema, quindi diventa molto difficile per loro ricevere aiuto ed assistenza; senza contare che l’intervento degli adulti contribuisce talvolta a peggiorare la situazione, dal momento che il problema di fondo viene spesso sottovalutato e l’alcolista è rapidamente liquidato con un blando rimprovero, se non con l’indifferenza e l’emarginazione. Purtroppo un comportamento di questo genere è particolarmente diffuso all’interno delle famiglie, che dovrebbero attuare un primo tentativo di contenimento ed aiutare il giovane ad arginare il dilagare della tendenza, sin dalla prima constatazione dei sintomi. Anche se non è mai stato scoperto un gene per l’alcolismo, questo fenomeno è considerato un “male di famiglia”: sono psicologici e non biologici i fattori che ne consentono una trasmissione ereditaria; i figli tendono ad introiettare e a fare propri atteggiamenti e abitudini tipiche dei genitori, a considerare lecito ciò che viene tollerato all’interno della famiglia sino a diventare una consuetudine.
Risulta difficile annientare l’alcolismo in quanto gli alcolici sono considerati sostanze legali e il loro consumo è accettato dalla società: è considerato lecito, è entrato a far parte di un business molto redditizio; è soprattutto sulla fascia d’età che va dai 15 ai 25 anni che la maggior parte dei bar e dei luoghi di ritrovo basa i suoi lauti guadagni. Per questa ragione sono esigui gli spot che allertano i giovani riguardo all’uso/abuso di alcolici e a prevalere sono le pubblicità che associano le bevande alcoliche ad un piacere, una bellezza ed un benessere irrinunciabili. L’alcool è il fulcro di grandi profitti e di un circolo vizioso in cui vengono irretiti i consumatori senza che questi si rendano conto di essersi imbattuti in una trappola: la dipendenza.
L’abuso e la dipendenza da alcolici comporta gravi rischi per la salute (cirrosi epatiche e altre patologie che interessano il fegato, tumori allo stomaco, esofago, pancreas ed intestino, disfunzioni circolatorie, disturbi mentali e comportamentali) a causa delle tossine che danneggiano organi e apparati, inoltre può provocare forte depressione che, nei casi estremi, potrebbe causare il suicidio. La depressione può insorgere in seguito ai continui fallimenti del giovane che tenta di disintossicarsi dall’alcol senza successo ed incorre in continue ricadute, sentendosi sempre più solo, sfiduciato e senza speranza, con conseguenze molto negative per l’autostima.
Un altro fattore di rischio per i giovani che abusano di alcol è la maggiore probabilità di essere coinvolti o di provocare incidenti stradali e domestici, con un rischio molto alto di invalidità e morte prematura. Le statistiche dimostrano l’incidenza tra patologie connesse all’abuso di alcolici e violazioni della legge.
Altre conseguenze dell’abuso di alcolici sono il cambiamento repentino dell’umore, scarse capacità di concentrazione, insonnia ed irascibilità, oltre alla trasformazione completa della personalità del giovane che ha sviluppato una dipendenza da alcol: la sua attenzione è talmente concentrata sull’ossessiva ricerca della sostanza, da lasciare in disparte tutto il resto (impegni e affetti), persino il proprio aspetto che appare piuttosto trascurato. La diminuzione o la totale assenza di senso di responsabilità pongono il giovane in situazioni imbarazzanti che, una volta ritornata la lucidità, non è più in grado di gestire, con il rischio di ottenere il risultato opposto a quello desiderato: può compiere gesti di cui in seguito potrebbe pentirsi. La mancata coordinazione dei movimenti, la lentezza dei riflessi e la difficoltà a parlare che lo stato di ubriachezza porta con sé non sempre giovano ai rapporti con l’altro sesso o ai tentativi di fare nuove amicizie. Il rifiuto e la delusione, uniti all’incapacità di smettere, suscitano nell’alcolista irritazione, vergogna e sensi di colpa; la depressione finisce per condurlo all’isolamento e alla chiusura in se stesso, nel tentativo di nascondere agli altri la sua debolezza, rendendolo totalmente incapace di comunicare la propria sofferenza. Oltre a non aver superato la condizione di disagio che aveva spinto il giovane ad abusare dell’alcol adesso si è aggiunto un problema ulteriore: la dipendenza.
Il giovane alcolista assiste al degrado progressivo di ogni ambito della propria esistenza: ogni esperienza, ogni emozione che vive sotto l’effetto dell’alcol è priva di ogni autenticità e non può essere vissuta a pieno. L’alcolista non si accorge che la maggior parte del suo tempo e della sua giovinezza viene sprecata a bere e a smaltire i postumi della sua ubriachezza.
“I giovani sono la nostra risorsa per il futuro, la nostra speranza di sopravvivenza. E proprio i giovani sono i bersagli di falsi modelli di vita, di dati falsi, di sostanze tossiche reclamizzate nei modi più subdoli e abietti. I giovani sono una potenza, ma spesso non hanno abbastanza forza, indeboliti da sostanze tossiche piuttosto che informati sull’alcol e le sue conseguenze”, questo il monito che Narconon, il centro di disintossicazione e riabilitazione dall’alcool, rivolge alla nostra società.


Dipendenza da droghe


L’età critica in cui i giovani iniziano a drogarsi è compresa tra i 15 e 17 anni. Oltre a motivazioni legate al desiderio di essere indipendenti e di sentirsi adulti, alla delusione d’amore e alla frustrazione professionale o scolastica, si aggiungono motivazioni legate alla curiosità, al desiderio di seguire una moda e alla pressione esercitata dal gruppo di amici da cui vorrebbero sentirsi accettati e ai quali non hanno il coraggio di dire di no per paura di essere esclusi. I tossicodipendenti che provengono da famiglie benestanti e hanno ottime prospettive per il proprio futuro, si avvicinano alla droga per desiderio del proibito, per colmare la mancanza di stimoli che non riescono a trovare nella vita quotidiana di cui non riescono a reggere i ritmi frenetici.
La droga provoca quasi subito dipendenza sia fisica che psichica: nel primo caso l’individuo è costretto ad assumere continuamente droga per attenuare le sofferenze organiche, inoltre il meccanismo della tolleranza, che scatta quasi subito, permette all’organismo di adattarsi alla droga e richiede dosi sempre maggiori per ottenere gli effetti desiderati. A quel punto se il soggetto non è in grado di procurarsi la droga cade in uno stato di completa disperazione ed ha una crisi di astinenza. Ben presto il tossicodipendente finirà per far ruotare la sua vita attorno alla fornitura di droga, rinunciando ad ogni legame con la società e con la realtà; per procurarsi la droga sarà disposto a tutto, persino a rubare, prostituirsi, diventare spacciatore e, se necessario, anche ad uccidere. Così il giovane finirà per essere integrato nei gruppi delinquenziali.
Purtroppo gli interessi economici prevalgono su quelli sociali e sono diminuite rispetto al passato le campagne d’informazione per la gioventù, mentre risultano inefficaci le leggi volte alla tutela dei giovani contro la dipendenza da sostanze stupefacenti.
I genitori non devono permettere ai giovani di portare con sé molto denaro, in quanto persone prive di risorse finanziarie sono meno appetibili per gli spacciatori. I giovani, dal canto loro, devono essere consapevoli dei rischi che possono correre ed imparare a saper dire di no, in quanto una personalità forte viene accettata dagli altri senza essere costretta ad imitarli.
Laddove ogni tentativo di prevenzione della tossicodipendenza si è dimostrato vano, un’ulteriore possibilità d’intervento per ridurre il disagio può essere ricercata nei centri di accoglienza, nelle comunità terapeutiche e nei centri di reinserimento, che, oltre a fornire ai tossicodipendenti aiuto psichico in una condizione di totale anonimato, tentano d’impegnarli in lavori manuali ed agricoli, per aiutarli a distrarsi dal desiderio ossessivo della droga, auspicando la loro reintegrazione all’interno della società in seguito alla disintossicazione.
L’effetto della droga varia e dipende dalle dosi che vengono assunte dall’organismo: in quantità minime ha un effetto stimolante, in quantità maggiore diventa un sedativo, in una quantità ancora più grande potrebbe trasformarsi in un veleno e provocare la morte.
I giovani scelgono di fare uso di anfetamine per l’attrazione che viene suscitata dal senso di benessere, vigore, fiducia in se stessi e loquacità che questo tipo di droga produce. Gli effetti collaterali delle anfetamine sono la perdita di appetito e, di conseguenza, il digiuno prolungato, la mancanza di sonno che si protrae per giorni interi sino a che il giovane non cade in una condizione di ansia e demoralizzazione. Prima di giungere a vere e proprie lesioni gravi per il cervello, chi abusa di anfetamine può assumere atteggiamenti paranoici e sentirsi perseguitato da voci che non esistono.
I sintomi paranoici e le idee fisse interessano anche la condizione di chi fa uso di cocaina; questo tipo di droga che deve essere assunta molte volte al giorno, induce le persone a vivere in una dimensione irreale, lusingandola con i suoi effetti afrodisiaci, la sensazione di forza e bellezza, e facendola sentire “al centro del mondo”. Un analogo delirio di onnipotenza è prodotto dall’ecstacy, diffusa soprattutto all’interno delle discoteche, dove i suoi effetti eccessivamente stimolanti sembrano ai giovani indispensabili per prolungare al massimo uno “sballo” difficilmente controllabile e muoversi sulle note di una musica assordante e martellante sino al mattino.
A lungo andare l’ecstacy provoca buchi nel cervello, ma non dispensa chi ne abusa dei suoi effetti collaterali neppure dopo le prime assunzioni: insonnia, dissociazione e turbamenti psichici mentre è in circolo, mentre, allo sparire dei suoi effetti, provoca ansia, depressione ed indolenza.
Ecstasy e marijuana sono state spesso trascurate nei loro effetti; marijuana e hashish, le cosiddette “droghe leggere” hanno conseguenze molto sgradevoli sui giovani: oltre a danneggiare concentrazione e memoria, a suscitare stanchezza e cambiamenti della personalità, rendono la gioventù apatica e priva di ogni ambizione, gettandola in una condizione di completo squallore.
I giovani sono sedotti dalla possibilità, insita nell’assunzione di queste sostanze, di far svanire la timidezza e di essere disinibiti nei confronti del sesso, perdendo di vista i veri obiettivi che dovrebbero guidare le loro scelte: chi fuma hashish e marijuana tende a dirigere la propria attenzione verso la propria interiorità; potrebbe sembrare una conquista positiva, se non fosse per lo spiacevole inconveniente di perdere completamente l’interesse per l’ambiente e per le persone che lo circondano, dimostrandosi costantemente distratto e perso nei propri pensieri. Tali stati di benessere apparente, non recano benefici, ma fanno diminuire l’interesse per lo sport, per lo studio e per gli hobbies, attività che difficilmente sono conciliabili con lo stato di eterna stanchezza e torpore che tali droghe portano con sé. Per un giovane in piena età dell’apprendimento, la cui memoria necessita di svilupparsi, le conseguenze sono ancor più gravi che per un adulto.
Un’altra droga che costituisce un freno psichico nello sviluppo delle capacità di lavoro e di esperienza è il metadone, un oppiaceo sintetico simile alla morfina e all’eroina.
Per i suoi effetti prolungati (dalle 8 alle 24 ore) l’ice (“ghiaccio” perché è costituito da cristalli che si fumano come il crack o possono essere masticati) è considerato la droga del futuro. Più tossico del crack, stimola il sistema nervoso facendo sentire i giovani eccitati, euforici e quasi invulnerabili.
Anche l’ice implica stati depressivi, aggressività e allucinazioni, in quanto agisce sul sistema nervoso provocandone danni irreparabili.
Per sfuggire ai problemi della vita di ogni giorno alcuni giovani amano trovare rifugio nelle droghe che possiedono effetti allucinogeni come KET e Lsd. Un effetto negativo della Ketamina è l’insensibilità ai dolori, che implica la possibilità di subire traumi e lesioni senza accorgersene. Gli effetti “psichedelici” dell’Lsd (alterazione delle percezioni, immagini distorte e colorate, fantasie e allucinazioni) possono produrre paura ed ansia per il timore di non riuscire più a controllare i propri pensieri.
L’eroina, la tipica droga “da strada” è la più mortale tra tutti i tipi di droga ed è la più rapida a creare dipendenza: la necessità di procurarsi quantità sempre più elevate di questa sostanza (che viene somministrata soprattutto per via endovenosa) rende gli eroinomani immuni da qualsiasi tipo di scrupolo etico e morale: la continua ossessione di dover racimolare soldi per acquistare la propria dose quotidiana annulla ogni forma di rispetto per se stessi e per il prossimo. Per l’eroina il rischio di overdose è una minaccia incombente.

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L’elogio della nuova generazione
considerazioni semi serie di uno che non sopporta molto i giovani d’oggi...
di don Mario Operti


Fonte: http://www.gioc.org/materiale/documenti/GiOC/Elogio%20dei%20giovani.pdf
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Laureati, un anno disoccupati. Generazione senza prospettive (di Federico Pace)

Fonte: http://diquadila.splinder.com

La triste situazione lavorativa dei giovani in Italia. Aumenterà ulteriormente la fuga dei cervelli verso l'estero e la classe politica, assieme a quella industriale, non prenderà alcun provvedimento.

(Viaggiatore81)

In un anno la quota dei senza lavoro è cresciuta di sette punti percentuali. E nei primi mesi del 2010 la domanda di laureati in economia e commercio è crollata del 37 per cento. Si indebolise ancora di più il filo già esile della stabilità. E pure la paga diminuisce ancora. I risultati del rapporto di AlmaLaurea su oltre 210 mila giovani. TABELLA: lo stipendio mensile. IN CERCA DI IMPIEGO: a un anno dalla laurea




Sono, loro malgrado, il simbolo di un'Italia in crisi. Un Paese che non accetta ricambi generazionali, non conosce meritocrazia e preferisce tenerli relegati alle periferie del mondo attivo. I laureati, sempre più disoccupati, sono le icone di un'era economica in cui il lavoro ai giovani viene più "somministrato" che offerto. Lasciato intravedere per qualche mese, e poi sfilato via dagli occhi e dalla quotidianità. Sono la risorsa a cui non vengono concesse più concrete prospettive e su cui, cinicamente, pochissimi vogliono investire ancora.

Nei primi due mesi di questo infausto 2010, le imprese hanno smesso di averne necessità. Bastano pochi numeri: il fabbisogno delle aziende italiane di laureati in economia e commercio è stato inferiore del 37 per cento a quello mostrato negli stessi mesi dell'anno scorso. Non solo, pure di ingegneri i direttori del personale ne chiedono sempre meno. E questo giusto per dire dei due titoli considerati più forti e rivendibili sul mercato del lavoro. Nel complesso, la quota di chi è ancora disoccupato un anno dopo avere concluso il ciclo di studi "specialistico" (tre anni più due) è aumentata di sette punti percentuali. Un'evoluzione che non risparmia nessuno tipo di percorso di studio. I dati sono quelli del Rapporto 2010 di Almalaurea, presentato oggi a Roma e che ha coinvolto 210 mila giovani di tutta Italia.

Emergenza giovani. Le evidenze svelano, una volta ancora di più, la crucialità del tema e la necessità di interventi in questa area strategica da un punto di vista ecomomico, sociale e culturale. "Una delle principali arene su cui si gioca il futuro dell’Europa e dell’Italia - ha detto Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea che monitora da dodici anni il fenomeno - è quella in cui si forma e si utilizza il capitale umano. Approfondire una riflessione di ampio respiro su questo versante, evitando i catastrofismi ma anche la politica dello struzzo, vuol dire avere a cuore il futuro ed evitare che il nostro Paese, all’uscita dalla crisi, si trovi in posizione marginale nel contesto internazionale. Vuol dire farsi carico di una vera e propria emergenza giovani evitando che alcune generazioni di ragazze e ragazzi preparati restino senza prospettive e mortificati fra mercati del lavoro che non assumono ed un mondo della ricerca privo di mezzi".

Ancora disoccupati. L'anno scorso erano ancora in cerca del loro primo impiego il 16,5 per cento dei neolaureati triennali. Quest'anno sono arrivati al 22 per cento. Con lo stesso destino si sono misurati anche i laureati che hanno concluso il ciclo dei cinque anni: l'anno scorso erano senza lavoro il 14 per cento, oggi sono il 21 per cento. Così come sta accadendo a medici, architetti e veterinari, ovvero gli specialisti a ciclo unico, che quest'anno si misurano con una disoccupazione del quindici per cento, l'anno scorso era il nove per cento (vedi tabella).

Incrementi, di gran lunga superiori a quelli della disoccupazione media, che segnano un ulteriore e dramamticato passo indietro. E seppure è vero che i laureati nel lungo periodo intraprendono un destino occupazionale meno disagiato dei loro coetanei diplomati, sembra altrettanto vero che questi ultimi mesi stiano mettendo a repentaglio e frammentando ancora di più i percorsi occupazionali di più di una generazione.

Il labirinto della precarietà. Tanto che questo anno si è indebolito ancora di più il filo già esile della stabilità occupazionale facendoli diventare ancor più atipici e meno stabili. Dei ragazzi e ragazze usciti dalla "specialistica" che hanno trovato lavoro, il 52 per cento lo ha fatto passando per contratti di collaborazione o altre forme precarie. L'anno scorso erano il 49 per cento. I rapporti di lavoro stabili sono stati il 26,1 per cento mentre erano il 27,8 per cento l'anno passato. E cresce la quota anche di chi lavora senza aver alcun tipo di contratto. Ancora più accentuata è stata l'evoluzione che ha coinvolto i neolaureati triennali dove l'incremento della precarietà è stata pari al tre per cento con una pari riduzione delle forme contrattuali più stabili.

L'infausto nomignolo. Così, nonostante gli anni stiano passando, nelle tasche di ciascuno di loro continua a finire sempre meno. Incollati all'infausto nomignolo di "generazione mille euro", dopo quasi dieci anni continuano a guadagnare la stessa cifra, se non meno. Chi si era laureato entro la fine del 2008, dopo un anno prende al mese una media di 1.050 euro. L'anno scorso erano un poco di più e la contrazione registrata oscilla tra il 2 per cento dei laureati "triennali" e il 5 per cento degli specialistici (vedi tabella).

La curva a forma di "L". Nel tentativo di intuire quello che ci aspetta, gli economisti stanno cercando di indovinare quale andamento avrà la ripresa (se e quando questa arriverà). Nessuno sa davvero cosa succederà. Anche il premio Nobel Paul Krugman ha detto di non averne alcuna idea. Pochi sono quelli che dicono che la curva disegnerà una forma a V, ovvero dopo la discesa rapida ci sarà poi una ripresa altrettanto rapida. Altri pensano ad una ripresa più lenta (una curva ad U). In assenza di concreti interventi, il sospetto è che rischiano di avere ragione queli che immaginano che dopo la crisi e il crollo non ci sarà alcuna ripresa nel numero di offerte di lavoro. La curva in questo caso avrà la forma della lettera "L". Per una sorta di crudelissima ironia, la stessa con cui inizia la parola "laurea".

Fonte: miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/notizie/dettaglio/laureati-un-anno-da-disoccupati-la-generazione-senza-prospettive/... Repubblica.it, 18/03/2010
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Non è un paese per giovani

Fonte: http://www.popolis.it/SezioneEspansa.aspx?EPID=44!12!44!0!56136!

Brescia - Un partecipato dibattito che si inerpica fra le tortuose strade in corsa tra i dislivelli del territorio di Botticino (Brescia), non a caso distinto fra le località di Botticino Mattina e di Botticino Sera, ha rappresentato vari richiami di riflessione sull’attuale complessità del tema italiano legato al libro “Non è un Paese per giovani”, scritto a quattro mani da Elisabetta Ambrosi e da Alessandro Rosina per la Marsilio editori.

A catalizzare i vari contributi d’analisi espressi nella sala comunale di via Carini a Botticino Sera è stata la locale sezione di “Partecipazione & Identità – Associazione di Cultura Politica”, rappresentata dal dr. Ennio Pasinetti, nel ruolo di moderatore degli interventi espressi dall’autore, Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano, dal dr. Roberto Zanolini, direttore generale della Compagnia delle Opere di Brescia, dal dr. Erminio Bissolotti, giornalista economista del Giornale di Brescia, dal dr. Renato Zaltieri, già segretario bresciano della CISL e dagli avvocati Mario Gorlani e Francesco Onofri.

L’approccio al libro “Non è un Paese per giovani” ha trovato fertile presa nella provocazione di una serie di documentate e stimolanti considerazioni nelle quali protagonista è la società italiana dove, attraverso la focalizzata analisi del rapporto fra giovani e non più giovani, pare che “il conflitto generazionale sia disattivato”.

Il senso di questo è che “esiste una vera e propria questione generazionale che va affrontata come tema prioritario perché gli squilibri che ne stanno alla base hanno conseguenze negative sia sul benessere e le prospettive di vita dei giovani, sia sulla dinamicità sociale e sulla crescita economica del Paese”.

Una delle prime conseguenti conclusioni del citato assurto sposato dall’autore è che “i giovani di oggi sono la prima generazione del dopoguerra a trovarsi con prospettive e opportunità relativamente peggiori rispetto ai padri”, accompagnata al fatto che “nel nostro Paese si sentono più spesso figli che persone adulte pronte per assumersi pieni impegni e responsabilità”.

Il problema scalfente una ferita aperta nel panorama giovanile si nota in Italia e meno nel resto d’Europa in quanto “anche negli altri Paesi esiste un mercato del lavoro flessibile, ma è bilanciato da un sistema adeguato di protezione sociale. Mentre in Italia si è lasciato che la flessibilità scadesse nella precarietà, costringendo i giovani a dipendere sempre più a lungo dalla famiglia di origine e a procrastinare continuamente i loro obiettivi di vita”.

Le conseguenze, descritte anche a presentazione del “libro denuncia” del prof. Rosina sono che “l’Italia continua ad essere un Paese statico, nel quale viene privilegiata la tutela dei privilegi acquisiti, delle rendite di posizione, anziché investire sulle risorse più innovative e dinamiche”.

La chiave di volta della generale riflessione intelligentemente contestualizzata tra gli aspetti molteplici legati alla vita dell’uomo è che “è di fatto saltato il patto implicito che regola un buon rapporto tra generazioni. Il conflitto però non scoppia perché i giovani sono più abituati a considerarsi figli, destinatari di aiuto dai genitori se serve, che cittadini pienamente titolari di diritti”.

La via d’uscita a questa singolare situazione socioeconomica del contemporaneo “sistema Italia” potrebbe essere rappresentata da un “maggior investimento in formazione, maggior valorizzazione del capitale umano nel mondo del lavoro, maggior spazio nella società e maggior possibilità di emergere in base ai propri talenti e capacità indipendentemente dalla famiglia di origine”.

Verso questa amara descrizione, presentata nell’essere caratterizzata dalla “scelta di vivere al presente e di difendere quanto c’è”, pur accusando i colpi incassati di un’accresciuta denatalità, di un lievitato costo del debito pubblico, degli effetti della crisi economica, della fuga dei giovani intelletti all’estero, del minor tasso di occupazione riferito alle più recenti generazioni e della precarietà del mondo del lavoro, come tante facce di un fenomeno strisciante di “degiovanimento”, si è confrontato il dr. Renato Zaltieri, direttore dello IAL CISL.

L’autorevole sindacalista, ponendo critica al fatto che non si “è riusciti a trasmettere il senso del lavoro” travasando le più costruttive esperienze di vita dei genitori nei figli, ha sottolineato la necessità che adesso, mentre le classi d’età anteriori devono reggere i molteplici ruoli sociali, non solo di padri e madri di famiglia, ma anche al tempo stesso di figli e pure di nonni, per le allungate prospettive di vita, sia utile ritrovare “un equilibrio fra le parti in una patto generazionale”.

Una disponibilità, nell’ottica di una condivisa presa di responsabilità, sostenuta anche dal dr. Roberto Zanolini, direttore della Compagnia delle Opere che, nel corso del dibattito attorno al libro “Non è un Paese per giovani”, ha scardinato il denunciato immobilismo invitando tutti ad una presa di coscienza perché “ci si metta a fianco dei giovani fornendo loro elementi di speranza nello stimolare al contempo anche il mondo imprenditoriale perché sappia interpretare un dialogo con le nuove generazioni improntato all’incoraggiamento nella perseveranza e nella cura dei propri talenti da mettere a frutto, in quanto non si tratta tanto e solo di realizzare condizioni favorevoli di applicazione, ma di educare ad un impegno che sappia contraddistinguere la solidità della persona”.

Ponendo in risalto la positiva tradizione della Compagnia delle Opere e del movimento Comunione e Liberazione che “nel lavoro pone a cardine di ogni attività la centralità della persona”, il dr Roberto Zanolini ha rimarcato l’importanza del saper interpretare esperienze positive a fiducioso riferimento di chi cerca la propria strada nella vita e nelle vie delle professionalità nelle quali privilegiare quanto di più uno abbia “nel cuore” come vocazione autentica e trainante.

Un monito alla virtù della speranza che è stato ribadito anche dall’esperienza personale evocata dal giovane giornalista dr. Erminio Bissolotti, cronista del più diffuso quotidiano bresciano, che, nel richiamare l’importanza di una motivata determinazione personale, ha messo in rilievo la contraddizione di un’arrendevolezza di un non impegno da parte di chi voglia invece affermarsi, perché in un tempo dove attenersi al semplice “compitino non si può più fare” a maggior ragione valga il monito che “la fortuna aiuta gli audaci” nella direzione di una tenace presa di forza delle proprie migliori potenzialità da mettere in gioco.

Una riflessione sull’auspicato ed accresciuto coinvolgimento giovanile, è giunto anche da parte degli avvocati Mario Gorlani e Francesco Onofri che hanno calato la figura dei giovani negli ambiti politici ed istituzionali, illustrando le proprie opinioni circa la realtà attuale contraddistinguente il rapporto fra i giovani e la classe dirigente e le possibilità dei meccanismi per un ricambio ai ruoli rappresentativi e dirigenziali nell’ambito di una dimensione collettiva di responsabilizzazione.

In particolare l’avvocato Onofri ha riferito circa l’esperienza in atto a Brescia dell’associazione “Officina della città”, quale strumento per favorire un più sentito coinvolgimento dell’impegno sociale ed istituzionale anche da parte dei giovani, perché portino espressione di innovazioni fuori da eventuali schemi chiusi che invocano oggi la necessità di “uno sforzo della politica perché tra le varie sensibilità si faccia strada una nuova pedagogia mirata all’adesione delle responsabilità ai vari livelli” dai quali prescindere per considerare un riscontro di maturità e di consapevolezza sia personale che comunitaria, a riflesso della gestione della cosa pubblica.

Nel confronto con il libro “Non è un Paese per giovani” che, nel merito, l’avvocato Gorlani ha stimato nella sostanza di una lavoro editoriale da “docente universitario formulato con la brillantezza dello stile giornalistico”, sono pure intervenuti a favore di un richiamo delle responsabilità dei singoli, il parroco, don Raffaele Licini ed il sindaco Mario Benetti, rappresentando, anche dai vertici della comunità di Botticino, una riuscita adesione alla locale iniziativa culturale promossa dal’associazione “Partecipazione & Identità” per la promozione di un dibattito sui temi emergenti ad edificazione di un’ampia riflessione d’insieme, partendo da interessanti argomentazioni specifiche esaminate nell’ottica di quell’auspicata cura per una matura coscienza civile.

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[Modificato da fabioroma77 09/03/2011 15:42]
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09/03/2011 18:32

Ciao ragazzi,io x la riunione ci sono,sono libera dal 21 al 27.
L'anno scorso avevo iniziato a scrivere qualcosa su quest argomento,proprio a partire dal fatto che questa generazione ha a disposizioe tantissimi mezzi da usare x i propri scopi e alla fine si sta solo facendo usare e imprigionare da questi.
francesca capaldo
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09/03/2011 18:33

Ciao ragazzi,io x la riunione ci sono,sono libera dal 21 al 27.
L'anno scorso avevo iniziato a scrivere qualcosa su quest argomento,proprio a partire dal fatto che questa generazione ha a disposizioe tantissimi mezzi da usare x i propri scopi e alla fine si sta solo facendo usare e imprigionare da questi.
francesca capaldo
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14/03/2011 18:30

Riunione e psicologa
Ciao a tutti! Come ho già comunicato a Fabio, ho trovato una psicologa che parteciperà volentieri al nostro progetto. Lavora come insegnante di sostegno in una scuola superiore e quindi ha a che fare coi ragazzi piuttosto spesso...
Detto questo, volevo dire la mia circa la questione della riunione. In linea di massima sono d'accordo sul fatto che debbano essere gli autori per primi ad incontrarsi (anche se non ho ancora ben capito chi siano... Fabio e??). E poi... credo che per me andrebbe bene quel weekend che si è detto, ma nel pomeriggio possibilmente, dato che purtroppo lavoro e studio pure nel weekend! In ogni caso cercherò di esserci per l'occasione, chiaramente! E' un periodo mooooooolto incasinato devo dire!!! Ma la buona volontà c'è, senza dubbio!
Volevo anche ringraziare Fabio per i materiali che ha indicato, molto interessanti!
[SM=g27987]
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17/04/2011 21:03

Re: Incontro o non incontro? Questo è il problema! Ma non solo.....
fabioroma77, 04/03/2011 10.44:


Concordo con joventango sul contenuto del suo messaggio: forse il punto è distinguere tra ruoli prettamente tecnici e quelli di produzione ed artistici che possano essere interessati direttamente anche alla fase preproduttiva...
(Naturalmente ciò non esclude che i tecnici possano dire la loro nelle discussioni del forum o prendendo parte agli incontri che ci saranno, ma il loro intervento saliente viene dopo aver stabilito "cosa" fare...)
Tuttavia jovetango, nel tuo ultimo messaggio (anche se autocensurato) hai usato dei toni che hanno un po' "colpito" alcune persone, che si sono fatte vive con me per mail. Io (personalmente) non penso tu sia una persona con poco tatto o irrispettosa dell'altrui opinione, e credo lo confermerai nei tuoi prossimi interventi; i tuoi interventi personalmente li trovo interessanti ed utili nei contenuti. Forse sono un po' bruschi ed è per questo che alcuni hanno visto nel tuo modo di porti un "che" di assolutistico e poco "aperto" alla mediazione.

Tornando all'incontro potremmo realizzarlo nella settimana dal 20 al 27 marzo, che ne dite? Per favore chi è interessato comunichi qui se preferisce nel week end o in settimana, di sera o di mattina, luna piena o calante [SM=g27985] .... Ovviamente l'incontro sarà aperto a chiunque volesse partecipare...

Nel frattempo chi non avesse preclusioni in merito, può continuare con me il lavoro sul documentario: dato che mancano almeno due (se non tre!) settimane a quella data, ed è parecchio tempo, credo riusciremo a portarci dietro un bel po' di fogli di cui discutere quel giorno, oltre che naturalmente fare conoscenza di persona....

Saluti da Fabio




francesca capaldo
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17/04/2011 21:05

Ragazzi ma quando ci vediamo?o vi siete visti già?Penso ke parlare sempre e solo a computer nn è mpolto costruttivo o no?ciao ciao [SM=g27987]
francesca capaldo
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